La Stampa, 18 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI
Il sinodo si sta davvero mostrando come un cammino fatto insieme, un processo creativo che fa crescere la convergenza su alcuni temi cruciali per la vita dei cristiani e per la presenza della chiesa nella compagnia degli uomini.
Dall'ascolto degli interventi in assemblea e dalla ricerca dei circum minores emerge innanzitutto un'immagine di chiesa universale, a dimensione del pianeta, una chiesa che, come quella della Pentecoste a Gerusalemme parla le diverse lingue degli uomini e, in queste lingue diverse, cerca di innestare il vangelo di Gesù Cristo. Se è vero che dai tempi di papa Giovanni le genti della terra hanno iniziato a essere riconosciute e presenti anche nelle istituzioni della chiesa - il cardinale Rugambwa, creato da Giovanni XXIII nel 1960, fu il primo cardinale africano - resta altrettanto vero che le chiese extra-europee, soprattutto le africane e le asiatiche, emergono adesso con un loro volto preciso: non sono più chiese rette da missionari europei, ma hanno autentica consistenza di chiesa anche a livello di formazione del clero e del laicato e contribuiscono a loro volta in maniera significativa alla trasmissione della tradizione cattolica.
Sovente tuttavia, anche per il loro radicamento nella realtà dei loro Paesi, non sono contemporanee ad altre chiese dell'emisfero nord-occidentale e le loro culture, così diverse dalle nostre, evidenziano altri problemi, altre urgenze, altre situazioni sociali... La chiesa cattolica è veramente una comunione plurale, non solo per i riti, ma per le differenze derivanti in modo libero e forte dalla cultura.
Forse anche per il magistero papale siamo negli ultimi tempi di un'espressione teologica destinata in modo indifferenziato a tutte le culture della terra. In futuro sarà quasi impossibile che il linguaggio di un'enciclica di respiro universale come la Deus caritas est - tra le più belle mai scritte da un papa - sia percepito efficacemente da “tutti i cattolici”: le chiese asiatiche o africane, per esempio, ne avrebbero una ricezione condizionata dalle loro categorie culturali e quindi necessiterebbero di una “traduzione” non solo linguistica per rendere possibili risposte pastorali adeguate alle loro urgenze.
Comprendiamo allora perché alcuni padri africani denunciano l'ottica occidentale prevalente nell'lnstrumentum laboris e negli interventi in assemblea.
Le preoccupazioni pastorali dell'Africa centrale e meridionale sono altre: là il matrimonio non è in situazione critica mentre sono cogenti problemi come la poligamia, l'oppressione della donna, le pratiche che ne offendono la dignità... I matrimoni interreligiosi tra cristiani e musulmani, poi, sono luoghi di facile frattura oppure opportunità di incontro, di dialogo, di esempio della libertà di coscienza e di professione religiosa? Si pensi anche all'apporto che queste chiese potrebbero dare attraverso il loro modo di concepire la “famiglia” con la presenza ancora decisiva e autorevole degli anziani che offrono il loro contributo di sapienza ed esperienza... Al sinodo vi può così essere uno scambio non solo di vedute o di testimonianze, ma di autentici doni che una chiesa può fare all'altra.
In numerosi ambiti la chiesa cattolica fa la difficile ma ricca esperienza vissuta già da una ventina d'anni dalla comunione anglicana: trovare e percorrere cammini pastorali diversi in diverse regioni del mondo nell'unica confessione di fede. Si tratta di imparare a vivere una nuova sinfonia ecclesiale, non solo tra centro (la Santa Sede) e periferie ai confini del mondo, ma tra le chiese stesse. Sarà compito del successore di Pietro servire questa comunione plurale, vegliare su questa consonanza nella diversità, mantenendo l'unità della fede e garantendo le legittime diversità nella liturgia, nella disciplina, nella teologia, nella spiritualità.. L'uniformità ecclesiale latina è finita ma occorre più che mai salvaguardare l'unità della fede in una comunione che include e non esclude. E si dovrà pensare a organismi ecclesiali a livello regionale e non più nazionale, aiutando maggiormente l'elaborazione di progetti e presenze cristiane nel mondo che superino visioni insufficienti, a volte troppo chiuse o miopi, che talora affliggono le conferenze episcopali nazionali.
D'altronde questa era la prassi del primo millennio, con sinodi regionali e le chiese organizzate nei cinque patriarcati. In ogni caso, ciò che più ha occupato i padri e acceso gli animi sono le disposizioni pastorali da assumere nei confronti dei divorziati risposati, cioè coloro che portano in se stessi la ferita della rottura o della fine del matrimonio celebrato e sancito davanti a Dio nella chiesa. Tutti i padri sinodali sono convinti che il matrimonio cristiano è indissolubile, che questa indissolubilità è un fine sempre da perseguire anche con fatica, ma anche che si tratta di un valore di ordine rivelativo e profetico, perché mostra la fedeltà di Dio nell'alleanza con il suo popolo e con l'umanità intera.
Ciò che viene discusso riguarda il “come” la chiesa possa avere una parola e operare con un atteggiamento secondo il vangelo per le famiglie concrete di oggi: situazioni di divorzio, persone risposate civilmente, madri abbandonate, giovani donne incinte lasciate sole, famiglie monoparentali... é divenuto di dominio pubblico l'episodio di un bambino che nel giorno della sua prima comunione ha spezzato l'ostia ricevuta per darne una metà al padre che, divorziato risposato, non avrebbe potuto riceverla. Alcuni vescovi, udendo il racconto, si sono commossi, ma questa situazione non è un'eccezione: divisioni intrafamiliari come questa sono vissute ordinariamente da coniugi cristiani che partecipano alla messa senza tuttavia poter comunicare, entrambi facenti parte del corpo di Cristo ma impediti a manifestare sacramentalmente questa loro verità. Si pensi anche a coniugi cristiani di diversa confessione, anche loro uniti nell'amore sigillato in una celebrazione ecclesiale, uniti nella vita di fede, nell'educazione cristiana dei loro figli e poi divisi al momento di partecipare al cibo eucaristico che nutre la loro vita cristiana ...
Da più parti si prospetta così una possibilità di accesso ai sacramenti da parte di coniugi divorziati risposati, ma ad alcune precise condizioni: che la richiesta dei sacramenti parta dalla loro coscienza cristiana, che siano convinti di doversi assumere la responsabilità della rottura del vincolo matrimoniale come contraddizione alla volontà di Dio - salvo il caso del coniuge abbandonato-, che abbiano adempiuto ogni giustizia nei confronti del coniuge precedente e dei figli nati dalla prima unione, che vivano ecclesialmente la sequela di Cristo, che siano disponibili a un cammino penitenziale sotto il discernimento e la custodia del vescovo. Non si tratta dunque di negare l'indissolubilità del matrimonio cristiano, anche perché queste disposizioni non riguarderebbero indiscriminatamente tutti i divorziati risposati cristiani bensì solo alcuni casi sapientemente vagliati e seguiti non da ufficio burocratici diocesani ma dal vescovo, personalmente o attraverso incaricati competenti, esperti in umanità, obbedienti al vangelo e refrattari a logiche mondane o a richieste che non si configurano come frutto di una coscienza illuminata dal Vangelo.
Questa possibilità sta nello spazio della misericordia che la chiesa deve sempre mettere in atto verso i suoi figli e verso gli uomini tutti, in conformità al suo Signore Gesù Cristo. Misericordia non svenduta ma a caro prezzo: il prezzo del dono della vita che Cristo ha fatto per noi. Nessuna contrapposizione allora tra misericordia, giustizia e verità perché in Dio, che è il legislatore, la misericordia viene prima della giustizia e quest'ultima non è mai punitiva, mai retributiva, mai meritocratica: è una giustizia non bendata perché guarda il volto di ciascuno e discerne la sofferenza, il desiderio dell'amore e, solo successivamente, il peccato. In un'omelia a Santa Marta papa Francesco ha ricordato che noi cristiani non solo siamo scandalizzati dalla misericordia, ma siamo incapaci di accogliere la “gratuità della salvezza”. Preferiamo ascoltare maestri che, come dottori della legge, dichiarano salvati quelli che sono osservanti, giusti incalliti che dichiarano dannati quelli che non osservano o non sanno osservare le prescrizioni dettate dalle tradizione degli uomini e non dal Dio legislatore. Esperti della legge che, nonostante Gesù e Paolo, sono ancora presenti nella chiesa.
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