La Stampa, 17 agosto 2014
di ENZO BIANCHI
Vivo in mezzo ai boschi che coprono quasi tutta la Serra morenica di Ivrea: solo nelle strette vallate pianeggianti riempite dai detriti glaciali c’è spazio per prati non coltivati da un secolo. Ma fin dall’infanzia, quando mi rifugiavo in solitudine nei boschi che separavano il mio paese da quello di mia madre, Montabone, so che il bosco è un mondo: un microcosmo di erbe, fiori, funghi, insetti, animali…
Non solo alberi, quindi, eppure sono loro a costituire il bosco, ad attirare l’attenzione di chi vi si avvicina e a costituire una muraglia per chi intenda addentrarvisi dal mondo esterno. Il bosco va frequentato con assiduità, va attraversato lentamente se lo si vuole conoscere e capire. Nelle fiabe e nelle leggende, ascoltate tante volte fin dall’infanzia, il bosco è sempre presente come luogo di paura, di pericolo: un luogo abitato da creature e forze inquietanti.
Molti bambini hanno paura a entrare in un bosco: paura di perdersi, ma anche di incontrare figure impensate, mostruose... Il bosco partorisce presenze inedite, ma soprattutto fornisce metafore per la nostra esistenza, essa pure un ecosistema. In ogni caso, raccolti in un bosco o in splendida solitudine, allineati in filari o disseminati sulle colline, gli alberi si offrono come compagni nella nostra vita: sta a noi frequentarli, imparare ad ascoltare il loro profumo e le loro voci, guardarli a lungo, ciascuno nella sua unicità e tutti insieme nel loro stare accanto con le fronde intrecciate. Sta a noi abbracciarli per salire sui rami quando siamo giovani, oppure appoggiarvisi da anziani per dire loro che meritano affetto. Quante amicizie nate attorno agli alberi, con le prime scappatelle da ragazzini per rubare la frutta o le uova dai nidi, quante fantasticherie d’amore alla loro ombra discreta e complice...
Così gli alberi, il bosco diventano maestri, offrendoci lezioni di vita e di morte. Sì, di morte, perché anche gli alberi muoiono, nonostante la loro vita possa essere molto più lunga della nostra, come tante querce secolari testimoniano ai nostri occhi affascinati. Ma anche quelli più possenti a un certo punto si ammalano fino a seccare e morire: cadono a terra, si sbriciolano lentamente e diventano humus, terra fertilissima. Noi, come tutti gli esseri animali, siamo molto più fragili e il nostro ritmo di vita è più breve. L’albero vive un’alleanza tra vita e morte differente dalla nostra: è possibile, per esempio, che la morte colpisca una o più fronde, persino un insieme di rami, senza che muoia l’intera pianta.
A volte possiamo contemplare alberi, come gli ulivi, con il tronco interamente scavato, senza più il “cuore” ma con la linfa che continua a scorrere dalle radici ai rami: restano in vita, anzi paiono ricominciare vite nuove, e continuano a verdeggiare. Certo, mi stringe il cuore vedere in questi ultimi anni i castagni della Serra colpiti dal cancro, osservare le loro foglie come raggrinzite dal dolore, seguire quotidianamente lo sforzo immane compiuto dalla pianta per proseguire comunque il suo ciclo vitale...
In questo loro “morire a pezzi” riusciranno a sconfiggere la malattia o almeno a isolarla, impedendogli di invadere e stroncare tutta la pianta attraverso le metastasi? Eppure anche gli alberi di un bosco, eccetto i sempreverdi, ogni autunno sembrano morire o, meglio, avviarsi verso il sonno profondo, da sempre metafora della morte. A partire da settembre, quando il sole abbassa la sua traiettoria quotidiana, le giornate si accorciano e la luce appare più diafana sulle brume in dissolvenza al mattino, gli alberi preparano una festa di congedo: le foglie si vestono di giallo, di rossastri variegati, di bruno e di ruggine.
È l’autunno che avanza infondendo nel cuore un senso di pace velata da tristezza: viene il freddo, sopraggiungono le piogge minute e insistenti, l’alba ritarda il suo apparire al mattino e il sole anticipa il suo nascondersi dietro le Alpi. Le foglie cominciamo a cadere a ogni soffio di vento: sembrano danzare con movimenti lenti, come se esitassero a posarsi a terra. Piangono, perché anche loro percepiscono lo staccarsi dal ramo come una morte, ma come canto del cigno trasmettono i colori al terreno che ricopre le radici, così che rami e suolo indossano lo stesso abito gioioso: è come se un tappeto e un arazzo si richiamassero prima di dissolversi.
Tra poco il vento ammasserà le foglie, la pioggia e la neve le macereranno e le ricondurranno alla terra da cui sono state generate e alimentate. Attorno restano colorati solo pini e abeti, alti e maestosi, autentici signori dell’inverno. Non temono il freddo, accolgono la neve che li rende ancor più gloriosi: sotto il suo peso i rami si piegano ma non si spezzano, ogni tanto si rialzano come se un arciere avesse lasciato la corda, altre volte nel silenzio si odono strazianti scricchiolii, segnale che anche per loro il curvarsi può essere doloroso. Per giorni e giorni paiono sentinelle in postura di vigilanza, incaricate di custodire la terra: resistono alla durezza dell’inverno e rispondono alla rigidità del gelo ondeggiando al vento con signorile eleganza.
A volte sosto alla mia finestra, accanto al camino acceso, e li contemplo a lungo... Anche di notte, quando nel chiarore lunare disegnano un orizzonte frastagliato e ricamano le colline imbiancate, la loro voce mi inquieta: nessuno li guarda, nessuno si accorge di loro, nessuno sosta sotto i loro rami in questa stagione grama, eppure loro stanno là, presenti e resistenti finché l’inverno non sarà passato. Ma tra le foglie secche, sulle ripe già a fine gennaio fioriscono le primule che gareggiano con i tappeti di bucaneve, le esplosioni azzurre e bianche dei crochi e le punteggiature di violette. Il primo favonio di febbraio scuoterà i rami infreddoliti e li farà sgocciolare: è il pianto di gioia degli alberi, è il loro grido di vittoria. Anche quest’inverno ce l’hanno fatta!
E la buona notizia della vita che riprende si diffonde rapidamente: le betulle osano le prime foglioline, i ciliegi selvatici – così abbondanti sulla Serra – accennano un timido rifiorire, macchie di verde quasi fosforescente e di bianco tenue rallegrano un bosco dalle sembianze ancora rabbuiate. Un nuovo ciclo di vita si apre: a fine aprile il bosco è nuovamente coperto di foglie verdi, ogni albero ritrova la sua forma maestosa e inizia la danza degli aromi: la precoce acacia con il suo dolce profumo invade le ore del giorno, mentre l’inconfondibile tiglio attende la brezza del mattino e il refolo serale per invitarmi a uscire e inebriarmi del profumo effuso. Percorro allora il viale di tigli che ho piantato poco lontano dal mio eremo fino a raggiungere i castagni, più lenti a destarsi, quasi restii a emettere i loro effluvi amarognoli.
Sono profumi che ritrovo nel miele delle nostre api, instancabili operaie che osservo ronzare tutto intorno, andare e tornare incessantemente nell’aria tiepida della tarda primavera. Amo gli alberi perché li sento come fedeli compagni della mia vita: da loro ho imparato a durare, a perseverare, a “stare lì”, a resistere nelle stagioni dure, a piegarmi sotto pesi che a volte sembrano volermi schiacciare. Dagli alberi ho imparato a perdere tante cose, come loro perdono le foglie e si denudano e sto ancora imparando ad accettare l’inverno quando sembrerà che tutto sia finito. Davanti al mio eremo c’è una grande quercia che pare abbia più di duecentocinquant’anni: altissima, domina maestosa una ripa di fronte a un prato esteso.
Dal mio tavolo posso sempre vederla e a volte le parlo, anzi le rispondo perché le domande è lei a farle. Mi è divenuta così familiare che a volte vado a trovarla, mi metto alla sua ombra, guardo i suoi rami, osservo gli scoiattoli che vi si rincorrono... Poi, prima di rientrare al mio eremo, la abbraccio senza poter congiungere le mani attorno a quel tronco così grande: l’abbraccio come si abbraccia una persona amata, quando stringendola al petto gli si dice una sola parola: “Grazie!”.