La Stampa, 8 agosto 2014
di ENZO BIANCHI
“Qui a Qaraqosh la gente ha tanta paura: se i fondamentalisti entrano qui sarà un caos, una tragedia gravissima”. Così ci scriveva il 21 luglio Wisam, monaco iracheno che è stato più volte ospite della nostra Comunità a Bose assieme ai suoi due confratelli. L’ultimo messaggio che ci ha mandato era datato 2 agosto e conteneva gli auguri per la festa della Trasfigurazione: “speriamo sia anche la Trasfigurazione dell’Iraq che sta soffrendo tanto”. In queste ore anche Wisam e i suoi fratelli sono tra le decine di migliaia di profughi cristiani in fuga verso un luogo che non c’è. La vicenda di questa piccola comunità monastica è emblematica della tragedia che stanno vivendo i cristiani in quelle terre: nel 2005 l’auto su cui due di loro, allora studenti universitari di Baghdad, stavano viaggiando per andare a una cerimonia nuziale era stata colpita da un proiettile sparato da un autoblindo americano. Uno di loro era morto, l’altro sarebbe uscito dal coma dopo alcuni mesi: da allora si muove con due gambe artificiali e non oso immaginarlo oggi in fuga precipitosa. Da Baghdad si erano poi spostati nella piana di Ninive, dove sembrava che i cristiani potessero trovare maggiore protezione: lì conducevano la loro vita monastica alternando la preghiera notturna con il lavoro di manutenzione delle strade e di raccolta di detriti e rifiuti per sostentarsi e aiutare le persone ancora più in difficoltà di loro.
Tutto questo fino a ieri. Poi anche loro devono essere finiti inghiottiti nel fiume di sofferenze che sta travolgendo i cristiani di quella regione martoriata. Papa Francesco, e con lui vescovi e patriarchi di quelle terre, non perdono occasione per richiamare, esortare, ammonire, invocare gesti e azioni degne dell’essere umano: ma la situazione non fa che peggiorare. Gli organismi internazionali sono paralizzati, la politica estera europea è inesistente, il parlamento italiano è impegnato a oltranza a riformare se stesso, le urgenze di ciascuno di noi sono altre, dalla crisi economica e occupazionale all’organizzazione delle “meritate” ferie... e così decine di migliaia di persone abbandonano le loro case senza prendere nulla con sé, a centinaia sono uccisi, i più deboli – anziani, malati, bambini – muoiono per le insostenibili fatiche di un viaggio senza speranza.
I cristiani sono le prime vittime di queste atrocità e il loro perseverare nella fede dei padri è motivo di ostracismo e condanna, ma assieme a loro vengono colpiti anche i loro vicini musulmani. Tornano qui alla mente le parole del testamento di fratel Christian, rapito e ucciso con i suoi fratelli in Algeria: “Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'islam che un certo islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti”. Sono parole che ho avuto modo di sentire applicare da Wisam alla situazione irachena e ai musulmani della sua terra e che, a nome loro, sento di dover riaffermare ancora oggi.
Certo, lo scoraggiamento, il senso di impotenza, l’istinto di rimozione per vincere l’angoscia, l’impossibilità ad assumere sulle nostre spalle tutte le miserie del mondo ci frenano, ma cosa deve ancora succedere perché le nostre coscienze siano scosse e chi ne ha il potere faccia qualcosa per fermare il massacro? La storia ci chiederà conto di questa catastrofe umanitaria che non riusciamo o non vogliamo impedire. Perché in Iraq come in Siria non è a rischio solo la sopravvivenza di una comunità cristiana presente nella regione fin dai primissimi secoli: è a rischio l’umanità intesa come capacità di sentirsi ed essere responsabili del proprio simile; è a rischio quella dote umana di esprimere sentimenti e istanze morali che chiamiamo cultura; è a rischio il patrimonio etico della convivenza, del dialogo, del confronto per fronteggiare insieme il duro mestiere del vivere; è a rischio il rapporto stesso con il creato.
Nella tragedia irachena è in gioco la nostra risposta al lancinante interrogativo posto da Primo Levi settant’anni fa: chiediamoci “se questo è un uomo”, se siamo esseri umani noi che ci abituiamo a seguire queste vicende protetti da uno schermo, sempre pronti a cambiare canale, se sono degni dell’autorità e del potere loro conferito quanti chiudono gli occhi e pensano ad altro o, peggio ancora, si ingegnano a trovare opportunità di guadagno nelle catastrofi che si abbattono sugli altri. Chiediamoci che crescita economica è quella alimentata dai mercanti d’armi e dai profittatori di ogni risma; che diplomazia è quella che si preoccupa solo di equilibrismi, di non ingerenza, di rispetto di zone di influenza; che politica è quella che ha perso il senso della polis e del mondo come spazio comune. Se non ora, quando ci decideremo a lavorare con risoluta pazienza per un disarmo delle menti, dei cuori, delle braccia? Quando ci ricorderemo che chi ha pronunciato la terribile frase “sono forse il custode di mio fratello?” era in realtà il suo assassino?