La Repubblica, 16 maggio 2014
di ENZO BIANCHI
“Il martire non sceglie la morte ma un modo di vivere, come Gesù”. Ritorno a questa frase lapidaria di un caro amico presbitero ogni volta che, ormai sempre più spesso, sono raggiunto dalla notizia di un cristiano ucciso per la propria fede. Così il rifiuto di Meriam Yehya Ibrahim – cristiana ortodossa sudanese, incinta di otto mesi, in carcere con l’altro figlio di 20 mesi – a rinnegare la propria fede per evitare la condanna a morte mi appare in tutta la sua valenza di luminosa emblematicità.
Da un lato vi è la tentazione di dimenticare che in questo nostro secolo, con la fine della cristianità, sono ritornati i martiri: abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a una nuova ondata di martiri, quale non si è mai registrata a partire dal iv secolo, che avviene in una grande trasparenza, senza ambiguità del segno. D’altro lato rischiamo di accomunare la perdita di alcuni privilegi o l’ostilità conosciute dai cristiani in alcuni paesi occidentali alle persecuzioni violente che subiscono fratelli e sorelle nella fede in altre parti del mondo.
Così facendo non solo manchiamo di rispetto verso la fermezza con cui costoro affrontano le prove, ma perdiamo l’opportunità di cogliere in profondità il senso del martire cristiano. Il cristiano ama la vita e non la disprezza, non cerca il martirio come autoimmolazione e nemmeno come perseguimento di una santità eroica, ma di fronte all’esplicita richiesta di rinnegare la propria fede con le parole o con azioni contrarie alle esigenze del vangelo, può giungere ad offrire la vita fino a morire, sull’esempio del suo Signore.
A volte, come in questo caso, le circostanze della persecuzione sono particolarmente aberranti, altre volte il silenzio, l’oblio, la “normalità” avvolgono sofferenze e morte inflitte a motivo della propria fede, ma l’atteggiamento del martire cristiano non muta: chiamato ad amare i nemici, a perdonare i persecutori, sull’esempio di Gesù, fa di questa morte violenta un gesto di vita e di amore. Un gesto di cui magari pochi o nessuno verrà a conoscenza, parole di perdono che non sempre qualcuno saprà ascoltare o tramandare, momenti di angoscia e di dolore lacerante che nessuno saprà lenire, ma anche attimi di grandezza umana e spirituale, raggi di luce nel buio della disumanità.
In questo senso il martire non sceglie la morte ma decide di vivere fino all’estremo la vita e ciò che dà senso alla vita: l’amore. La storia anche recente ci insegna che sovente sono le persone più semplici, i “piccoli”, gli ultimi ad affrontare cristianamente il martirio, sono loro che non si pongono troppe domande, che non cercano spiegazioni, ma accettano con estrema semplicità di rispondere unicamente alla propria coscienza e all’appartenenza a quel Signore che ha donato la vita per tutti, perché tutti possano riconoscere che la vita è più forte della morte, che l’amore è più forte dell’odio.
Sono persone che generosamente rifuggono ogni vigliaccheria, che anche di fronte alla morte restano fedeli a se stesse e a quanto hanno creduto e vissuto, che ribadiscono che solo chi ha una ragione per morire ha anche una ragione per vivere: monito silenzioso per tutti noi, sempre pronti a mutare atteggiamenti e opinioni in nome del più squallido opportunismo.
A noi è chiesto sì di fare ogni sforzo possibile per fermare i massacri, per impedire l’ingiustizia, per far rispettare i diritti e la dignità di ogni essere umano, ma ancor prima ci è chiesto di accogliere la testimonianza di fede, di amore e di perdono che tante vite di nostri fratelli e sorelle non cessano di offrirci. Non ci sarà chiesto conto dell’incapacità a fermare il carnefice, ma dell’oblio del martirio, del sordo tradimento verso un gesto tragico d’amore che avremo considerato insensatezza di chi non accetta di essere vigliacco per salvare la propria vita.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Repubblica