Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Il comandamento nuovo

06/05/2018 00:00

ENZO BIANCHI

Vangelo della domenica 2018,

Il comandamento nuovo

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:« 9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti...

VI domenica di Pasqua
di ENZO BIANCHI

Gv  15,9-17

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:« 9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. 12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.»

 

Nei “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12, all’interno del brano di questa domenica).

 

Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori (cf. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35). L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1). L’amore, dunque, ha origine in Dio e da Dio discende, creando una relazione dinamica nella quale ogni persona è chiamata ad accogliere il dono dell’amore, a lasciarsi amare per poter diventare soggetto di amore.

 

Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita e alla morte di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.

 

Come può un uomo dire questo? Eppure il Kýrios risorto lo afferma e lo dice a noi che lo ascoltiamo. In questi nove versetti per nove volte risuona la parola “amore/amare” e per tre volte la parola “amici”: questo amore discende da Dio Padre sul Figlio, dal Figlio sui discepoli suoi amici e dai discepoli sugli altri uomini e donne. È un amore che si incarna e si dilata per poter raggiungere tutti. È quasi impossibile seguire adeguatamente il discorso di Gesù; possiamo però almeno segnalare che in lui l’amore di Dio è diventato amore dei discepoli, i quali possono rispondere a questo amore discendente, donato a loro gratuitamente, dimorando in tale amore, ossia restando saldi nel realizzare la volontà di Gesù, ciò che egli ha comandato.

 

E questa volontà consiste, in estrema sintesi, nell’amare l’altro, ogni altro. Riusciamo a capire cosa Gesù ci chiede nel farci dono del suo amore? Non ci chiede innanzitutto che amiamo lui, che ricambiamo il suo amore, amandolo a nostra volta. No, la risposta al suo amore è l’amare gli altri come lui ci ha amati e li ha amati. La restituzione dell’amore, il contro-dono, che è la legge dell’amore umano, deve essere amore rivolto verso gli altri. Allora questo amore fraterno è compiere la volontà di Dio, dunque amarlo in modo vero, come Dio desidera essere amato. Gesù ha risposto all’amore del Padre amando noi, e noi rispondiamo all’amore di Gesù amando l’altro, gli altri. Per questo tutta la Legge, tutti i comandamenti sono ridotti a uno solo, l’ultimo e il definitivo, che relativizza tutti gli altri: l’amore del prossimo. Lo ha detto Gesù: “Dai comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo”, cioè dell’amore dell’altro vissuto come Dio vuole e come Gesù ha testimoniato, “dipendono tutta la Legge e i Profeti” (cf. Mt 22,40). E Paolo lo ha ulteriormente ribadito: “Tutta la Legge nella sua pienezza è riassunta nell’unica parola: ‘Amerai!’” (cf. Gal 5,14; cf. anche Rm 13,8-10).

 

Gesù ci consegna dunque un criterio oggettivo per valutare il nostro rapporto di discepoli con lui e con il Padre: l’amore fattivo, concreto verso gli altri. Solo mettendoci a servizio degli altri, solo facendo il bene agli altri, solo spendendo la vita per gli altri, noi possiamo sapere di dimorare, di restare nell’amore di Gesù, come egli sa di restare nell’amore del Padre. Senza questo amore fattivo non c’è possibilità di una relazione con Gesù e neppure con il Padre, ma c’è solo l’illusione religiosa di una relazione immaginaria e falsa con un idolo da noi forgiato e quindi amato e venerato.

 

In questa pagina del quarto vangelo Gesù ha anche l’audacia di reinterpretare il rapporto tra Dio e il credente tracciato da tutte le Scritture prima di lui. Il credente è certamente un servo (termine che indica un rapporto di sottomissione e di obbedienza) del Signore, ma Gesù dice ai suoi che ormai non sono più servi, bensì sono da lui resi amici: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici (phíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Intimità più profonda di quell’amicizia di Abramo (cf. Gc 2,23) o di Mosè (cf. Es 33,11) con Dio; intimità che è comunione di vita, comunione di amore. 

 

Il discepolo di Gesù, che fa innanzitutto l’esperienza di essere amato dal Signore, può diventare a sua volta un amante del Signore: non è semplicemente qualcuno chiamato a essere servo per svolgere un’azione, ma è un amico che entra in relazione con il Signore. Egli riconosce che non vi è amore più grande che dare la vita per gli amici, e in tale amore concreto è reso partecipe della parola, dell’intimità, della rivelazione del Signore. Il discepolo di Gesù è stato da lui scelto, l’amore di Cristo lo ha preceduto e il frutto che Cristo attende è l’amore per gli altri. Questo sarà anche l’unico segno di riconoscimento del discepolo cristiano nel mondo (cf. Gv 13,35): null’altro, anzi il resto offusca l’identità del cristiano e non permette di vederla.

 

Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che ci basti nutrire un amore di desiderio o di attesa per Dio: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù. L’amore presente nel desiderio di Dio può essere una grande illusione, e Giovanni lo ribadisce con forza: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). 

 

Ecco, noi cristiani, comunità del Signore nel mondo e tra gli uomini, dobbiamo avere la consapevolezza di essere originati dalla carità, dall’amore di Dio. Ecclesia ex caritate: la chiesa nasce dalla carità di Dio e solo se dimora in tale carità può anche essere chiesa che opera la carità, sapendo che l’amore non può mai essere disgiunto dall’obbedienza al Signore. Infatti è il “comandamento” che sa indirizzare plasmare il nostro amore in conformità all’amore di Cristo, che ci spinge addirittura ad amare il non amabile, a operare la carità verso il nemico o verso chi ha commesso il male nei nostri confronti.

 

In questo dono da parte di Gesù del comandamento nuovo, del suo comandamento per eccellenza, c’è la costituzione della sua comunità, della chiesa. Questa deve essere una casa dell’amicizia, un’esperienza di amicizia; i cristiani restano certamente servi del Signore, nell’obbedienza, ma sono amici del Signore nella condivisione della sua vita più intima, nella conoscenza di ciò che il Padre comunica al Figlio e di ciò che il Figlio dice al Padre in quella comunione di vita e di amore che è lo Spirito santo. Sì, il comandamento nuovo non ci viene dato come una legge ma come un dono che ci fa partecipare alla vita di Dio stesso. C’è qui il grande mistero cristiano della grazia, dell’amore gratuito e preveniente, dell’amore che non si deve mai meritare ma che va solo accolto con stupore e riconoscenza. Si legge in un detto apocrifo attribuito a Gesù: “Hai visto il tuo fratello? Hai visto Dio!”. Parole che possono anche essere comprese come segue: “Hai amato il tuo fratello? Hai amato Dio!”.