Omelia di ENZO BIANCHI
Quando si parla di vita monastica viene subito in mente una parola, stabilitas, alla quale la Regola di Benedetto dedica molta attenzione e molto spazio
Bose, 6 agosto 2009
(Mc 9,1-10)
Professione monastica definitiva
di Emiliano, Luigi, Gianmatteo, Elisabetta
Cari fratelli, sorelle, sorelle di Cumiana, fratelli monaci, amici e ospiti,
in una estesa comunione che va dall’oriente all’occidente noi vegliamo davanti al Signore e predisponiamo tutto il nostro essere perché diventi partecipe del mistero di Gesù Cristo trasfigurato. Su tutta la terra la chiesa, e in particolare i monaci, sono in veglia e cantano la gloria del Signore; su tutta la terra i monaci stanno davanti a Dio, coram Deo, realizzando così la loro vocazione. In questa notte noi più che mai viviamo la nostra vocazione e ne diventiamo consapevoli. Noi monaci non abbiamo una particolare missione o funzione nella chiesa: siamo semplicemente uomini e donne insieme, da un punto di vista umano, quasi per caso. Siamo qui, siamo là, nei deserti o nelle selve, sui monti o nelle valli, per che cosa? Per stare davanti a Dio insieme, in una vita comune, niente di più. Non facciamo nulla di particolare se non rimanere davanti a Dio e con Dio, in ascolto di Dio, in ricerca di Dio e per lasciarci trovare da Dio, in attesa della venuta di Gesù Cristo, con il quale vogliamo essere per sempre (cf. 1Ts 4,17). E tutto questo pregando e lavorando, pregando come cristiani e lavorando come tutti gli uomini: Ora et labora, due dimensioni assolute, due dimensioni strettamente connesse che compongono la vita del monaco.
Quando si parla di vita monastica viene subito in mente una parola, stabilitas, alla quale la Regola di Benedetto dedica molta attenzione e molto spazio (cf. RB 4,78; 58,9.17; 60,8; 61,5). Ed è vero, i monaci vivono la stabilitas, e per questa saldezza, per questo «stare» sono, come dice Benedetto, il genus fortissimum coenobitarum (RB 1,13). Ma la loro è una stabilitas in movimento: nella chiesa pellegrina sulla terra, chiesa fatta di carovane che attraversano città e deserti con una meta, con un oriente preciso, l’incontro con il Signore veniente nella gloria, ci sono anche i monaci. Camminano in gruppo, sono una carovana: il loro nome è koinonía, comunità comunione. Non so se stanno davanti, o al cuore, oppure seguono, ma certo i monaci dovrebbero, ovunque siano nella chiesa, saper tenere il volto rivolto verso la meta che è il Signore, dovrebbero essere come segni leggibili della direzione di tutta la carovana. Lo ripeto, i monaci non hanno compiti, non hanno missioni particolari: se sono fedeli alla vocazione ricevuta «fanno segno», sono come dei segnali sul cammino, niente di più…
Alla loro carovana si uniscono altri col passare degli anni, ma il cammino è lungo: anche quelli che a un certo punto si sono impegnati in questo cammino sono tentati di prendere altre vie. È la smentita della vocazione, è il tradimento dell’alleanza, è l’aver messo mano all’aratro e poi volgersi indietro (cf. Lc 9,62). E chi può negare che i nostri giorni sembrano proprio segnati dalla facile rottura degli impegni presi, nel matrimonio come nelle altre vocazioni cristiane? Anche la nostra comunità ha conosciuto recentemente questi strappi, questo rinnegamento di un cammino percorso, di un cammino abbracciato per amore e nella libertà. Ma il Signore davanti al quale siamo, sa, vede e comunque raccoglie le lacrime nella sua mano (cf. Sal 56,9) e non le dimentica. La vita monastica, che attualmente attraversa una situazione difficile in tutte le chiese di occidente, è soltanto questo: una carovana in mezzo alle altre che compongono la chiesa pellegrina, ma una carovana che punta con decisione e saldezza verso il Regno veniente, che tende all’incontro con Gesù Cristo, colui che noi monaci vogliamo amare al di sopra di tutti, di tutti e di tutto, colui al cui amore nulla è anteposto. Nihil amori Christi praeponere, come ci ricorda ancora Benedetto (RB 4,20)!
E noi in questa notte siamo qui perché nihil operi Dei praeponimus (cf. RB 43,3), non preponiamo nulla all’opus Dei, allo stare davanti a Dio, che è credere, adorare, confessare suo Figlio. Opus Dei è l’opera per eccellenza che ci è stata richiesta da Gesù, quando ha avvertito chi voleva seguirlo: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). Noi in questa notte contempliamo Gesù trasfigurato, attraverso la parola del vangelo che lo narra e lo testimonia. Abbiamo ascoltato il racconto secondo Marco che inizia solennemente: «Amen, in verità vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio venuto con potenza» (Mc 9,1). Gesù parla alle folle e ai discepoli, ma fa un annuncio che opera una distinzione: tra i suoi ascoltatori alcuni saranno beneficiari di un’esperienza misteriosa, diventeranno nella fede partecipi di un mistero prima di morire. Nei versetti precedenti Gesù ha parlato della sequela esigente dietro a lui, dicendo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, smetta di conoscere soltanto se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34), ma ora promette che qualcuno di quelli che lo seguono vedrà il regno di Dio non solo alla fine dei tempi, ma già venuto nella sua forza; Gesù promette che alcuni parteciperanno al suo mistero, alla sua identità, alla sua vita. Non tutti, ma solo alcuni…
Ed ecco l’adempimento di questa promessa: «sei giorni dopo» (Mc 9,2) – dunque nel settimo giorno, annotazione preziosa che fa di quel giorno anonimo un giorno sabbatico, il giorno di Gesù, il giorno del Signore – Gesù sceglie e prende con sé tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, i primi tre discepoli, i discepoli più intimi di Gesù, quelli che egli aveva scelto perché stessero con lui in momenti decisivi della sua vita. Sono tre, scelti dalla comunità dei Dodici, sono persone identificate nei vangeli per professione, temperamento: sono reali membri della comunità. Gesù «li porta in disparte, su un alta montagna», il luogo della rivelazione di Dio; e il vangelo sottolinea che li porta «essi soli» (Mc 9,2).
Ed ecco un’esperienza di fede, un’immersione nel mistero di Gesù. Chi è veramente Gesù? Chi è colui che essi finora hanno seguito come rabbi e profeta? Chi è costui e dove va? Certo, i tre non vedono nulla se non con «gli occhi del cuore» (Ef 1,18), con gli occhi della fede. Sono portati sul monte da Gesù e da lui sono sprofondati, immersi nel suo mistero; alla luce della fede sono introdotti nella conoscenza di Gesù. Vedono Gesù altrimenti, in altro modo: Gesù «fu trasfigurato, cambiò forma davanti a loro» (Mc 9,2). E così è percepito altrimenti dai tre discepoli, è percepito nella luce, nella luminosità delle sue vesti (cf. Mc 9,3). Tutto è descritto con un linguaggio al limite dell’impossibile, tutto si cerca di narrare, eppure l’evento resta inenarrabile… Pietro, Giacomo e Giovanni avevano sempre visto, ascoltato, toccato un uomo nella sua carne umana, ma ora percepiscono in quella luminosità che Gesù è anche altro. Mosè parlando con Dio aveva ricevuto un volto luminoso (cf. Es 34,29), ma qui chi risplende nella sua stessa carne è Gesù stesso.
E la percezione di Gesù raccontata visivamente si approfondisce: i tre vedono accanto a Gesù «Elia e Mosè che parlano con lui» (Mc 9,4). Gesù sta nella comunione dei santi dell’antica alleanza, dialoga con i santi profeti, è vivente nel mondo di Dio; ed Elia e Mosè pure viventi, gloriosi accanto a Gesù dicono la concordanza, la continuità tra la Legge, i Profeti e il Vangelo. Sì, nella trasfigurazione una è la fede, uno è il piano di salvezza, una è la Parola di Dio: uno dunque dev’essere il popolo di Dio, e Gesù è colui che realizza, porta a compimento la Legge e i Profeti che parlavano di lui, che videro il suo giorno (cf Gv 8,56) e che ora testimoniano la sua missione di inviato da Dio.
Pietro reagisce a tale percezione, ma di fatto non sa quel che dice (cf. Mc 9,6). Dice: «Rabbi, è bello stare qui» (Mc 9,5), reazione troppo immediata. Pietro, l’impulsivo che non sa aspettare, chiama Gesù rabbi, maestro, e gli chiede di prolungare quell’esperienza luminosa, dicendosi disposto a mettere in piedi tre tende per Gesù stesso, Mosè ed Elia. Ma questa reazione di Pietro è interrotta dalla rivelazione di Dio. Quello che finora i tre hanno percepito è solo un preambolo. Ecco dunque l’azione e la voce di Dio. Una nube, la nube della Shekinah, della Presenza di Dio, la nube che è lo Spirito santo, quella nube che stava sul Sinai e che ha incontrato Israele (cf. Es 24,16-17), che copriva la dimora (cf. Es 40,33-34), che prese possesso del tempio (cf. 1Re 8,10-12)… ora viene su Gesù. Ecco dov’è Dio, ecco la Presenza di Dio nel mondo: è Gesù! Questa nube copre anche i discepoli e da essa viene la voce del Padre che presenta Gesù: «Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Gesù è chiamato dal Padre «Figlio amato», ed è a lui che da quel momento va rivolto l’ascolto; lo Shema’ (cf. Dt 6,4-5) diventa ormai: «Ascoltate lui, il Figlio». Nella nube ci sono Gesù, Mosè, Elia e i tre discepoli: l’Antico Testamento (Israele), Gesù e il Nuovo Testamento (la chiesa). Questa è la partecipazione al mistero: nella nube, nella Presenza di Dio, partecipi insieme della vita di Dio attraverso Gesù, il Figlio. La nostra vita cristiana e monastica è chiamata a questa partecipazione, come ci ricorda Pietro: noi siamo chiamati a «partecipare alla vita divina» (cf. 1Pt 2,4): e questo stare in disparte con Gesù il Signore, per conoscere la sua identità, ascoltarla e amarla è il cammino per partecipare alla vita di Dio in Cristo. Ecco perché sono stati i monaci in oriente e poi, alla fine del primo millennio, anche in occidente, a volere la festa della Trasfigurazione del Signore e a cercare in essa la fonte della loro vita spirituale.
Proprio in questa festa noi celebriamo anche la professione monastica solenne e definitiva di alcuni nostri fratelli e di una nostra sorella. È la celebrazione della nostra alleanza tra di noi e con il Signore, è il nostro «Amen» alla chiamata di Dio e alla comunione di fratelli e sorelle che ci impegna a vivere insieme fino alla morte. Quello che molti di voi hanno celebrato nel matrimonio cristiano, stringendo un’alleanza tra sposi e con Dio che ne è il garante, ebbene questo gesto di alleanza noi monaci lo viviamo nel celibato e nella comunità. Ci vogliono molta audacia, molta fede e molta speranza per fare ciò che questa sera celebriamo, soprattutto oggi che la parola data è facilmente smentita, oggi che il primato va alla realizzazione di sé senza gli altri e sovente contro gli altri, oggi che gli esempi che ci stanno alle spalle, nella nostra storia, sembrano farci diffidare della possibilità di una vita per sempre offerta al Signore insieme. E tuttavia, cercando di vedere le realtà invisibili (cf. Eb 11,27), noi non temiamo e crediamo che Dio è fedele anche quando i chiamati da lui diventano infedeli. Cristo è la roccia che ci accompagna (cf. 1Cor 10,4), roccia di saldezza, e perciò noi non veniamo meno ma andiamo avanti fidandoci di lui; canta l’Apostolo Paolo: «Se noi diventiamo infedeli, Cristo resta fedele, perché non può smentire se stesso» (2Tm 2,13)! D’altronde, la nostra vicenda è stata anche quella vissuta da Gesù, in una vita comune con una ventina tra fratelli e sorelle, per tre o quattro anni: uno lo ha tradito, uno lo ha rinnegato e si è pentito, quasi tutti gli altri sono fuggiti alla sua morte e lo hanno lasciato solo… E dovrebbe andare meglio a noi? A noi che non abbiamo né la grazia né le forze di Gesù? A noi che non abbiamo neanche la fortuna – permettetemi di dire – di una vicenda comunitaria di soli tre o quattro anni?
Ecco allora la libertà con cui viviamo questa liturgia della professione: non siamo noi a fare qualcosa, ma è lo Spirito santo che agisce in noi e porta a temine ciò che noi sappiamo solo incominciare (cf. Fil 1,6), o meglio predisporre. Permettetemi ora una parola a ciascuno dei nostri fratelli che questa sera emettono la professione definitiva:
- a Emiliano, che è approdato qui nella sua ricerca intensa di Dio, come ieri sera per telefono mi diceva il suo precedente vescovo Diego Bona che lo conosce bene; questa sera c’è qui il vescovo attuale della sua chiesa locale di Saluzzo, Giuseppe Guerrini, che ci dice la presenza della chiesa di fronte alla quale emettiamo la nostra professione monastica;
- a Luigi, anche lui venuto qui dopo aver cercato una via di offerta della sua vita, del suo corpo e della sua intelligenza al Signore; sappiamo che questa sera pregano in modo particolare per lui i monaci della comunità di Simonos Petrassul monte Athos, con i quali ha avuto la grazia di trascorrere un lungo tempo;
- a Gianmatteo che, non posso dimenticarlo, è venuto qui a sette anni per seguire i corsi biblici fatti ai bambini, e io sono stato il suo maestro; poi è cresciuto ed è tornato qui quale presbitero della chiesa;
- a Elisabetta che, cercando una vita comunitaria, una vita di amore fraterno, ci ha trovati: tra noi è sbocciato l’amore fraterno, è sbocciata la volontà di comunione, e adesso lei compie pienamente il suo desiderio di comunità come monaca in mezzo a noi.
Io e la comunità ringraziamo il Signore per voi con gioia grande e convinta e vi accogliamo nella nostra comunione per sempre. E certo ringraziamo i vostri genitori che vi hanno trasmesso la fede cristiana; ringraziamo quelli che vi hanno aiutato a crescere nella vocazione; ringraziamo anche quelli che qui in comunità vi hanno fatto crescere e vi hanno accompagnato sulle tracce di Gesù, come maestri dei novizi, delle novizie, dei probandi. Cosa dirvi questa sera? Una sola cosa: la comunità non vi può promettere nulla, se non che qui potrete vivere il Vangelo e che qui potrete contare sull’amore reciproco, libero, gratuito, amore sempre bisognoso del perdono. Non dimenticate ciò che dice la nostra Regola: per vivere la fraternità, per vivere la comunione cristiana
- occorre innanzitutto credere all’amore, secondo le parole del discepolo amato: «Noi abbiamo creduto all’amore»(1Gv 4,16). È la cosa più importante, perché chi non crede all’amore non fa vita cristiana ed è fortemente minacciato nel suo cammino di umanizzazione;
- occorre, nello spazio comunitario, decentrarsi, cioè trovare il centro non in se stessi ma nel Signore, e comunque non voler essere al centro della comunità, lasciando sempre Cristo al centro del nostro vivere. Ricordate la lezione che Gesù ha dato alla sua comunità: quando si domandavano chi dovesse stare al centro, Gesù ha messo al centro, in mezzo un piccolo (cf. Mc 9,36);
- occorre dare accoglienza all’altro, decidendo di amarlo prima di conoscerlo. In una comunità monastica il grande allenamento è decidere di amare l’altro prima di conoscerlo. E non valgono né simpatie, né antipatie, né affinità elettive, perché nulla può essere preposto all’amore di Cristo. Il fratello, la sorella, è un dono di Dio, non lo scegliamo ma dobbiamo accettarlo come dono, con il suo modo di stare, di vivere i rapporti, di essere altro: gli possiamo solo chiedere di vivere il Vangelo, come lui può chiederlo a noi;
- infine, occorre curvarsi sull’altro, per servirlo, per perdonarlo, perché prima o poi sarà malato, prima o poi sarà vecchio, prima o poi lo scopriremo peccatore, prima o poi verrà a trovarsi in una situazione di bisogno e ci chiederà di piegarci, di curvarci davanti a lui.
Sì, questi sono quattro verbi, quattro azioni senza le quali non c’è costruzione della comunità, ma in tutte occorre il soffio dello Spirito santo che le accompagni, le sostenga, le purifichi: credere all’amore della vita comune, decentrarsi nella vita comune, fare spazio all’altro nella vita comune, curvarsi sull’altro.
Che lo Spirito vi aiuti a discernere queste esigenze, accompagni con le sue energie il vostro faticoso lavoro, vi sia sempre accanto come Consolatore. Allora potrete sperimentare «com’è bello, com’è buono che fratelli e sorelle siano insieme» (cf. Sal 133): è dono di Dio che scende dall’alto
è olio di santificazione che crea la comunità sacerdotale, perché è l’olio
di Aronne che rende la comunità sacerdotale
è rugiada che scende dall’alto, ristora e dà fragranza alla vita.
Che il Signore realizzi ciò che noi gli chiediamo con umiltà ma anche con audacia.