Avvenire, 22 dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
articolo in versione integrale
Che ne è oggi del “dialogo”? Si è ridotto a una convenzione formale, a una parola da citare a tempo e fuori tempo per continuare tranquilli a comportarsi senza l’altro o addirittura contro di lui? Eppure quello del dialogo - tra religioni, sistemi di pensiero ma anche blocchi politici e classi sociali – è un cammino faticosamente intrapreso a partire dalle macerie della seconda guerra mondiale, sostenuto da coraggiosi pionieri e ostacolato da avversari risoluti.
Non deve sorprenderci che abbiano sempre avuto miglior gioco questi ultimi, in quanto il dialogo è così difficile da impostare e intrattenere che basta poco per mandare in frantumi anni di paziente tessitura: una mancanza di sensibilità verso ferite ancora aperte, una provocazione estemporanea, l’ignoranza di ciò che fa soffrire l’altro sono capaci di innescare reazioni di enormi proporzioni inaudite, mentre eventi di agghiacciante violenza hanno il duplice effetto – contraddittorio e paralizzante – di far considerare il dialogo inutile oppure indispensabile.
D’altro canto, non basta invocare il dialogo per realizzarlo, né pensare che alcune discussioni accademiche su presunti “valori etici globali” si traducano automaticamente in cambiamenti profondi del modo di comportarsi delle persone nella vita quotidiana, là dove il dialogo può nascere e svilupparsi, ma anche essere soffocato e disatteso. In questo senso è fondamentale lasciare che sia l’altro a definirsi: se pretendiamo di ragionare con l’altro a partire da precomprensioni o pregiudizi, il dialogo nasce già morto.
Specularmente, si tratta poi di definire se stessi a partire dalla propria identità culturale, storica, religiosa, senza dimenticare che essa è a sua volta frutto di vicende, conflitti, dialoghi, incontri e scontri secolari. Questo duplice atteggiamento – accoglienza dell’autolettura dell’altro e consapevolezza della propria identità – comporta l’accettazione di un’eguaglianza basilare tra interlocutori ed esclude ogni atteggiamento di superiorità morale o di autosufficienza.
Il dialogo autentico – sia esso interreligioso o multiculturale, diplomatico, sociale o politico – non è mai semplice perché richiede costanza, sapienza, disponibilità, non avviene mai a basso prezzo perché esige un vero e proprio sforzo ascetico, teso a pervenire all’essenziale. Vi sono alcune esigenze fondamentali del dialogo che non possono essere ignorate se si vuole che esso non sia un puro esercizio dialettico ma divenga terreno fecondo di incontro. Innanzitutto è necessaria una disponibilità all’ascolto dell’altro e un’accettazione della sua diversità: non possiamo scegliere gli interlocutori a nostro piacimento ma dobbiamo fare i conti con chi ci sta concretamente di fronte.
Anzi, è importante praticare il dialogo a cominciare dagli interlocutori più vicini, per poi allargarlo progressivamente: è questa una capacità rara ma indispensabile, unitamente alla pazienza che rifugge dal ricorso a facili scorciatoie e ad avventurose corse in avanti, per accettare invece, con una buona dose di umiltà, di ricominciare ogniqualvolta l’obiettivo della reciproca comprensione, della civile convivenza e della pace lo richieda.
Possiamo allora fare a meno del dialogo? Nella stagione che attraversa la società a livello planetario, la domanda non si pone nemmeno: rifiutare il dialogo significa semplicemente scegliere il conflitto come linguaggio di scambio, lasciare che la parola passi alle armi. Le dimensioni globali del confronto etico, sociale, economico sono tali, infatti, che l’alternativa al dialogo non sia un rinchiudersi nella propria autosufficienza, ma il lasciare campo libero a quanti del dialogo non ne vogliono sapere e lo considerano un fastidioso protocollo da soddisfare formalmente per poter passare il più rapidamente possibile a strumenti più sbrigativi e violenti.
Allora, nella difficile stagione di dialogo che attende la nostra società, il ruolo che attende i cristiani non è solo quello di fornire argomentazioni solide e motivate in difesa di principi e valori imprescindibilmente legati all’annuncio del vangelo, ma è anche quello di sostenere tali affermazioni con una prassi concreta, quotidiana: saper ascoltare tutti è ciò che caratterizza uno spazio di autentica libertà in cui è possibile il formarsi di un'opinione condivisa, il recupero di quella parresia, di quella onestà di pensiero e franchezza di parola che fa parte dello statuto cristiano e che resta “buona notizia” per il mondo intero..
articolo in versione integrale
Avvenire, 22 dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
Pubblicato su: Avvenire