Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Cercare insieme la verità

16/09/2013 01:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2013,

Cercare insieme la verità

la Repubblica

la Repubblica
16 settembre 2013
di ENZO BIANCHI

Dopo la lettera aperta di papa Francesco a Eugenio Scalfari sembra predominare l’impressione della novità, della svolta, dell’inedito che prende forma

 

la Repubblica, 16 settembre 2013
di ENZO BIANCHI

 

Nel dialogo tra quanti cercano di essere coerenti con la propria fede e quanti si sforzano di esserlo con le proprie convinzioni, il bello e anche il difficile vengono adesso. Dopo la lettera aperta di papa Francesco a Eugenio Scalfari sembra predominare l’impressione della novità, della svolta, dell’inedito che prende forma. Ma vale la pena soffermarsi anche sulle conferme e gli approfondimenti, sulle prospettive e gli interrogativi ancora aperti.

 

Anzitutto, a chi si interrogasse sul perché del dialogo tra cristiani e laici, occorre rispondere che il dialogo è la via umana, condivisa dunque da tutti, “credenti” e “non credenti”, di costruire insieme un senso; è metodo (meth-odos) che diventa sinodo (syn-odos), cammino fatto insieme. E di cercare insieme la verità. Questo atteggiamento, che per i cristiani deriva dal credere che ogni uomo in quanto tale è immagine e somiglianza di Dio, dà forma storica alla mitezza, crea relazioni ispirate a quella mitezza che per Paolo VI “è carattere proprio del dialogo” (Ecclesiam suam). Il dialogo è spazio sostitutivo della violenza elaborato mediante quella facoltà solamente umana che è la parola e di cui, a partire da Socrate, non mancano certo esempi nella tradizione culturale occidentale anche fuori del cristianesimo. Il dialogo dunque va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza.

 

Inoltre, il linguaggio esprime una difficoltà fondamentale: distinguere tra “credenti” e “non credenti” lascia molti insoddisfatti, sia perché una delle due categorie è definita solo in negativo rispetto all’altra, sia perché chi non crede in Dio sovente crede comunque nel cammino di umanizzazione e in alcuni principi coerenti con essa. Inoltre, è proprio dei cristiani ripetere ancora oggi le parole registrate nei Vangeli del padre di un ragazzo ammalato che così si rivolse a Gesù: “Io credo, aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24). Fede e incredulità abitano anche il credente che ogni giorno deve rinnovare la sua fede, dissipare – per quanto gli riesce – i dubbi, affidarsi al Signore quando la tenebra sembra dominare.

 

Vi è poi da capire perché il gesto e le parole di papa Francesco appaiono una novità nel nostro specifico contesto culturale: è un papa non italiano e non europeo che si rivolge a un intellettuale italiano. Ora, in Italia avevamo già assistito, a partire almeno dal concilio Vaticano II, a tentativi anche approfonditi di dialogo, ma mai con il papa stesso come interlocutore principale. Analogamente questo era avvenuto e avviene con regolarità e forza ancora maggiori in altri paesi, soprattutto extra-europei. Basterebbe pensare, solo per citare un esempio legato al fatto che il papa è un gesuita, che tra i suoi confratelli religiosi ben cinquemila sono indiani, nati e cresciuti anche teologicamente in un contesto in cui il dialogo interreligioso e culturale è da tempo sfida e opportunità quotidiana. La lettera di papa Francesco ha sì avuto risonanza mondiale, ma i più implicati – e anche i più sorpresi – dalla novità restiamo noi italiani. Un vescovo di Roma, che ha potestà e autorevolezza sull’intero orbe cattolico, dialoga direttamente con il fondatore ed editorialista di un quotidiano laico che ha sede a Roma.

 

Che la chiesa cattolica volesse, anche nella sua istanza suprema che è il concilio ecumenico, aprirsi al dialogo con il mondo contemporaneo, lo sappiamo fin dal Vaticano II e della sua costituzione Guadium et spes, cioè da quasi cinquant’anni. Così come la definizione della chiesa come “esperta in umanità” che vuole dialogare ed essere solidale con l’umanità risale a Paolo VI e al suo discorso davanti all’assemblea generale dell’ONU, il 4 ottobre 1965. Da allora si sono moltiplicati anche gli organismi ufficiali preposti al dialogo, non solo con i cristiani non cattolici e con  le altre religioni, ma anche con il mondo della cultura e dei “non credenti”. Ma un conto sono le commissioni, gli incontri ufficiali tra esperti, i documenti elaborati insieme, un altro conto sono i dibattiti negli spazi pubblici, le “cattedre” create nelle grandi città, i “cortili dei gentili” aperti ai pensatori di ogni scuola e, da ultimo, lo scambio diretto sui media tra il papa stesso e un autorevole giornalista.

 

La novità più grossa resta che, proprio a questo livello di massima divulgazione – i mezzi di informazione quotidiana – si sia passati dal dibattito accademico e dal reiterato auspicio della necessità del dialogo, al dialogo vero e proprio, all’ascolto delle domande dell’altro e alle risposte, al rendere conto di chi o che cosa anima il proprio sentire e il proprio agire. Per questo dicevo che il difficile viene adesso: perché ormai non basta più dire che si vuole il dialogo, bisogna anche attuarlo, accettando di confrontarsi anche su temi rispetto ai quali l’uno o l’altro degli interlocutori – e magari entrambi – pensano di essersi già assestati su posizioni consolidate.

 

“Fare un pezzo di cammino insieme”, allora, vuol dire per tutti rendersi conto di non essere soli a camminare, di considerare questo confronto un’opportunità e non un fastidio o un impedimento a una marcia più spedita, una ricchezza potenziale e non un sacrificio inevitabile. Significa, per i cristiani, verificare anche se il linguaggio che usiamo è adatto a essere capito dal nostro interlocutore, se le certezze su cui ci fondiamo possono avere una base anche umana e non solo rivelata e trascendente, se ciò che presentiamo come istanza etica superiore abbia una valenza antropologica anche per chi non ne condivide l’origine. Gli interrogativi sull’inizio, la qualità e la fine della vita, le modalità della convivenza civile, le esigenze della libertà religiosa, i contrappesi delle istituzioni democratiche, i doveri e i limiti delle “ingerenze umanitarie”, il concetto stesso di democrazia e di giustizia, la discriminante decisiva tra ciò che è bene e ciò che è male sono tutti ambiti fondamentali che richiedono una deontologia del dialogo e, più ancora, una concreta pratica quotidiana del dialogo stesso. Questo il confronto che ci attende se vogliamo veramente camminare insieme: confronto di cui l’accoglienza riservata al pressante appello di papa Francesco per la pace costituisce una tappa fondamentale.

 

Papa Francesco mi pare abbia saputo cogliere negli interrogativi postigli da Scalfari una sete autentica e una volontà sincera di confronto e ha saputo avviare la risposta con franchezza ed empatia: nessuna reticenza sul proprio cammino di cristiano, di prete e di vescovo, nessuno stravolgimento compiacente del pensiero cattolico e della tradizione cristiana, ma la capacità di usare parole antiche con l’efficacia di un linguaggio nuovo perché semplice, uno stile evangelico che è già messaggio, una cordialità non affettata. E, soprattutto, una disponibilità ad aprire e proseguire la discussione, non a chiuderla. Se resta chiaro che Gesù Cristo è per il papa il principio e il compimento della sua fede, questo non esaurisce il confronto, ma lo approfondisce, nella piena consapevolezza di cosa significhi per un cristiano l’evento inaudito di un Dio fattosi uomo.

 

Per chi è cristiano c’è una risposta da dare alle parole di Gesù: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29). E il cristiano sa che questa risposta si può solo dare nella fede, cioè se avviene la ri-velazione, se Dio alza il velo e concede di “contemplare l’umanità di Gesù” come immagine del Padre. È allora decisivo da parte di ciascuno ascoltare questa domanda, non essere soddisfatto e chiuso in una autoreferenzialità incapace di ricerca e di ascolto, e quindi obbedire alla propria coscienza. Il cristiano sa che ogni essere umano è a immagine e somiglianza di Dio, quindi capace di avere in sé il senso del bene e del male, capace di accogliere la luce e di combattere le tenebre. Gesù di Nazareth per i cristiani è il racconto di Dio narrato nella sua vita umana, per gli altri è un uomo intrigante, un uomo singolare che ha saputo, come dice Scalfari, “amare gli altri più di se stesso”. Sì, per i cristiani Gesù è risorto dai morti, ha vinto la morte, ed è questo il fondamento della loro fede; per gli altri resta una domanda: ci interessa o no che l’amore vissuto fino all’estremo possa vincere la morte?

 

L’augurio è che ciascuno di noi, nelle semplici realtà quotidiane in cui si ritrova, possa riprendere e proseguire questo dialogo: un confronto che non è riservato agli specialisti, perché riguarda la vita. E ciascuno di noi è uno specialista, un esperto della vita. Ciascuno di noi ne conosce il valore e i limiti, sa cosa sia per lui e per quanti ama il vivere, il con-vivere, il morire. Ciascuno di noi sa anche cosa significhi camminare sulle strade della vita e come il camminare insieme possa aiutare a compiere passi che, intrapresi in solitudine, avrebbe considerato impossibili.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Repubblica