La Stampa
17 marzo 2013
di ENZO BIANCHI
Anche i suoi gesti di successore di Pietro, sempre identificato nel vescovo di Roma, ci dicono qualcosa e preannunciano le forme del suo servizio di comunione
La Stampa, 17 marzo 2013
Tre giorni di ministero petrino per papa Francesco, molti gesti significativi ed eloquenti, tre interventi che sono “atti” di linguaggio. Tre giorni, dobbiamo confessarlo, in cui lo stupore per la nomina inattesa continua, con un sentimento rinnovato da ciò che il nuovo papa fa e dice. Tre giorni in cui, essendo in viaggio, ho avuto modo di ascoltare molta gente in diverse città: “è come papa Giovanni”, “ha un cuore come quello di papa Giovanni”, “ci ha fatto piangere”...
Dopo mesi in cui, quando si parlava della chiesa, lo si faceva senza sorridere, nella tristezza del susseguirsi di accuse e diffidenze, ecco di nuovo la possibilità di guardare alla chiesa con simpatia, di riprendere fiducia verso un’istituzione che a molti appare lontana e poco affidabile. Il cristianesimo non fa che ricominciare, scriveva padre Alexander Men, il fuoco del vangelo sotto la cenere riprende ad ardere festosamente, la chiesa cattolica non è irreformabile. La semplicità di questo uomo e cristiano “salito sul trono di Pietro” (si può ancora usare questa espressione?), diventato vescovo di Roma e dunque successore di Pietro e papa della chiesa cattolica, la sua convinta e consapevole volontà di compiere gesti umanissimi – augurare la buona notte, rientrare a casa dal conclave su un pulmino con gli altri cardinali, scendere dal trono per andare ad abbracciare il cardinale decano Angelo Sodano, andare ai tavoli dei cardinali per pranzare con loro cercando un posto libero... – non può passare inosservata: chi vuole capisce, e chi conosce la grammatica umana perché la pratica coglie subito la presenza di una persona che vuole essere un uomo in mezzo agli altri, un fratello, e discerne cosa questo papa ha dentro il cuore.
Ma anche i suoi gesti di successore di Pietro, sempre identificato nel vescovo di Roma, ci dicono qualcosa e preannunciano le forme del suo servizio di comunione. Quel suo scendere dal trono per andare all’ambone a tenere l’omelia, quel suo vestirsi liturgicamente nella forma della nobile semplicità, quel suo presiedere l’eucaristia senza lasciar posto a modi “personali” ma obbedendo alla liturgia della chiesa, quel suo raccomandare “misericordia, misericordia, misericordia” ai confessori di Santa Maria Maggiore dicono la sua volontà di fare il papa da “servo dei servi di Dio”, nella semplicità e nell’umiltà, mostrando nel presiedere la medicina della misericordia piuttosto che l’intransigenza e la severità.
E i suoi tre interventi sono già una traccia precisa del suo magistero: innanzitutto, come in un adagio ricorrente, si definisce e continua a dirsi “vescovo di Roma”, titolo non solo teologicamente essenziale, ma anche ecumenico: il vescovo di Roma è un vescovo, vicario di Cristo come lo sono tutti i vescovi, non un supervescovo, ed è papa della chiesa cattolica in quanto vescovo della chiesa di Roma che presiede nella carità. E quando afferma questa sua qualità, papa Francesco si affretta a decentrarsi rispetto a “Cristo che è il centro, il riferimento fondamentale, il cuore della chiesa, senza il quale Pietro e la chiesa non esisterebbero”.
Nell’incontro di ieri con i giornalisti ha spiegato perché ha voluto chiamarsi Francesco, “l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato ... l’uomo povero” e ha esclamato: “come vorrei una chiesa povera e per i poveri!”. La chiesa è sempre stata per i poveri, ma a volte ha confidato nella ricchezza, è stata tentata di confidare nei mezzi e nei privilegi legittimamente acquisiti e riconosciuti dai poteri politici ed economici, poteri sempre mondani. Ma papa Francesco fa risuonare l’idea profetica di p. Yves Congar - “La chiesa dev’essere povera e serva” - così presente nei testi del concilio Vaticano II! Una chiesa povera, una chiesa che è innanzitutto “popolo di Dio”, una chiesa che dialoga con gli uomini senza mondanizzarsi, sempre mantenendo la differenza cristiana.
Papa Francesco nella sua prima omelia ha detto “Quando confessiamo un Cristo senza croce siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore”. Sono convinto che papa Francesco, accettando il ministero petrino sulle sue spalle, ha accettato il peso della croce. Nessun ingenuo ottimismo, perché noi sappiamo che quando un cristiano rende visibile nella sua vita il segno del Figlio dell’Uomo, la croce, allora scatena le forze avversarie del male che si abbattono su di lui e intorno a lui: è una necessitas, dice il vangelo. Ma è così che il vangelo si mostra operante nella storia!
Già ora cominciano qua e là a sorgere voci che contraddicono i suoi gesti e le sue parole, contestazioni e giudizi indegni di chi si dice cattolico: ma è solo un’epifania di gruppi e fazioni molto eloquenti ed efficaci, che in realtà sono anticristiani nelle parole e nei comportamenti. Prima del conclave ho scritto che se fosse stato eletto un papa “sbagliato” per alcuni e “giusto” per altri, questo non avrebbe costituito una novità nella storia della chiesa. Un papa eletto legittimamente può causare gioia in alcuni e preoccupazione in altri ma, per tutti, quello è il papa e non ve ne sono altri (sarebbero antipapi!) e a lui deve andare da parte dei cattolici l’obbedienza e il riconoscimento del suo servizio di successore di Pietro. Nella chiesa cattolica questo atteggiamento è essenziale!
Sono andato a trovare questa sera un amico più anziano di me, che mi ha voluto parlare del papa. Quando mi accingevo a congedarmi, salutandomi mi ha detto: “Ce l’avrà dura, povero papa!”. L’eco di queste parole resta in me: accanto alla gioia grande per papa Francesco mi abita anche molta trepidazione.
ENZO BIANCHI
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