Avvenire, 16 settembre 2012
di ENZO BIANCHI
Dobbiamo allora porci la domanda con serietà: è possibile il perdono a noi uomini? Se il perdono significa non un’affermazione verbale, non un atto esteriore e pubblico ma un vero e proprio atteggiamento del cuore
Avvenire, 16 settembre 2012
di ENZO BIANCHI
La gratuità cristiana conosce la migliore narrazione nel dono per eccellenza, il dono tra i doni, il per-dono, appunto. Scrive Attali: «Perdono è nome di Dio, perché nella misura in cui Dio è amore, è tale fino al perdono». Ma l’uomo, essendo a immagine di Dio, è capace di perdono, cioè di fare il dono più grande: perdonare chi gli ha fatto del male, perdonare il nemico, perdonare il persecutore, perdonare sempre e comunque! Il perdono è un dono totale, è dono fino all’estremo che richiede un sacrificio di se stessi in rapporto all’altro. Si perdona perché l’altro esista, si accetta di essere stati vittima senza per questo esercitare la vendetta che rende l’altro vittima a sua volta. Sul perdono, le parole di Gesù sono inequivocabili: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono...», senza se e senza ma!
Il perdono è dunque senza limiti, ed è un vero atto sacrificale perché si rinuncia a se stessi, perché il perdono costa, è a caro prezzo, è una forma di rinuncia a se stessi, di morte a se stessi. Dare il perdono, domandare il perdono, ricevere il perdono è veramente un’operazione difficile, faticosa, sempre incandescente per chi vi è coinvolto!
Dobbiamo allora porci la domanda con serietà: è possibile il perdono a noi uomini? Se il perdono significa non un’affermazione verbale, non un atto esteriore e pubblico ma un vero e proprio atteggiamento del cuore che vuole il bene di colui dal quale si è ricevuto del male, se vuole il bene e lo compie fino a dare all’altro tutte le possibilità di vita e di felicità che l’essere umano desidera, è possibile? È mai realizzabile questo perdono, questa rinuncia al debito dell’altro, questo condonare il debito fino al dono in profondità, fino al per-dono? È possibile la dimensione incondizionata e asimmetrica del perdonare «non sette volte, ma settanta volte sette» (cfr. Mt 18,21-22)?
E ancora: è possibile il perdono non solo nell’ambito personale, dell’intimo, ma anche nello spazio giuridico, politico ed economico? Non sono domande retoriche ma interrogativi ai quali oggi, nel nostro cammino di umanizzazione, vogliamo rispondere, consapevoli della fatica che ci attende personalmente, culturalmente, politicamente.
Già gli ateniesi conoscevano l’istituto dell’amnistia – dimenticanza, perdono – che aveva lo scopo di riconciliare le parti avversarie; noi oggi conosciamo il “condono” del debito contratto dai Paesi poveri, assistiamo ad alcuni abbozzi di “perdono reciproco” a livello politico e giudiziario, come in Sudafrica, siamo tuttavia lontani da un’affermazione del perdono inerente al concetto di giustizia, sia in ambito politico che in ambito giuridico. Il per-dono è sì un dono, ma frutto di un cammino, di un itinerario: a differenza del dono, non nasce in modo spontaneo e in risposta all’estasi del proprio intimo, non risponde al bisogno di relazione e di amore che ci abita, ma a un certo momento sopraggiunge come un soffio che ci trascende. Eppure non c’è dono che possa escludere il perdono, perché la gratuità, la grazia deve inglobare in sé il per-donare. Alla domanda se è possibile il perdono possiamo solo rispondere che è stato possibile perché la storia ce lo testimonia. Sono esistiti uomini e donne che hanno perdonato: hanno perdonato ad Auschwitz, hanno perdonato nei gulag, hanno perdonato uscendo dalle carceri dell’apartheid, hanno perdonato nel conflitto tra Israele e Palestina, hanno perdonato in tante vite dimesse e anonime, al seguito di Gesù che ha perdonato ai suoi persecutori, ma anche mossi dalla loro coscienza di essere umani esercitati dell’amore dei fratelli.
Per-donare è una vera conversione da attuarsi in se stessi. E va detto con chiarezza: il perdono non nasce dalla conversione di colui che ha offeso, ma nasce dalla conversione di chi ha ricevuto l’offesa. È la vittima che deve convertirsi: questa la portata scandalosa del perdono! Si tratta di rinunciare a vendicarsi, di rinunciare a rivalersi contro chi ha commesso il male; si tratta di non stare lontano dalla persona che ha compiuto il male, di non escluderla dalla propria presenza; si tratta di intraprendere un cammino di prossimità, fino a fare il dono della propria presenza benevola e conciliante a chi ha operato il male. Occorre tempo e fatica per il dono del perdono! Certo, questo non significa dimenticare, anzi: più si perdona e più si ricorda, ma in un’operazione di memoria che non è mortifera né per chi ricorda né per chi è ricordato come malfattore. Perdonando, si guardano le ferite, le stigmate sofferte che restano incancellabili, ma le si considera cariche di senso, capace di esercitare all’amore. E il perdono dato è il sigillo di questa dinamica. Così l’altro torna nel nostro orizzonte, non è negato bensì affermato come vivente verso il quale c’è la responsabilità di una fraternità rinnovata. Solo così il perdono è responsabile e può generare gioia... Sì, c’è più gioia nel perdonare che nel vendicarsi, c’è più giustizia nel perdono che nell’esecuzione di una legge punitiva!
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: Avvenire