Avvenire, 4 agosto 2012
di ENZO BIANCHI
Simeone, un monaco del VI secolo, è il prototipo dei “folli in Cristo”, strani personaggi che si fingevano folli nella loro ascesi
Avvenire, 4 agosto 2012
di ENZO BIANCHI
Estate del 1975. Assieme a un fratello della mia comunità decido di andare a trovare p. Placide Deseille, un monaco trappista di grande levatura spirituale che da qualche anno ha dato inizio a una piccola fondazione particolarmente attenta alla grande tradizione orientale. Ma, prima ancora che il gruppo di case trasformato in monastero si presenti alla nostra vista, siamo sorpresi da uno scroscio di risate... Subito temo che indicazioni errate ci abbiano condotto a qualche campo estivo di giovani ridanciani.
Confesso che tra me e l’umorismo esiste da sempre una certa estraneità. Non so se perché sono rimasto orfano di madre da bambino o perché sono abitato dalla consapevolezza che il comico nasce sempre dal tragico, fatto sta che non sono mai stato capace di raccontare barzellette né di cogliere il lato divertente di quelle che, raramente, qualcuno racconta in mia presenza. Anche i film comici e i racconti umoristici non hanno presa su di me, nonostante i ripetuti tentativi di miei amici per farmeli gustare. Da mio padre ho sì ereditato la verve per affibbiare simpatici soprannomi alle persone cui mi lega una certa confidenza, ma non la sua capacità di ravvivare con scherzi e battute la vita quotidiana di un paesino di campagna... Credo di essere tutt’altro che melanconico, triste o corrucciato, ma davvero il “genere letterario” umoristico non mi appartiene. Del resto – mi dicevo quando questo aspetto del mio carattere mi appariva quasi colpevole – i vangeli ci raccontano di Gesù che ha pianto, si è commosso, si è sdegnato, ma mai che abbia riso o fatto ridere: la gioia che sapeva infondere in quanti incontrava faceva a meno dell’umorismo.
È con disappunto allora che, immerso in quel fantastico bosco di Francia, sento arrivare risate da dove mi sarei aspettato un religioso silenzio oppure il canto di qualche tropario bizantino... Che fare? Tornarcene indietro? Decidiamo di proseguire e andare a vedere l’origine di quell’allegria per me smodata. Con grande sorpresa troviamo p. Placide attorniato da tre o quattro fratelli, seduti fuori dalle loro celle: l’anziano sta leggendo un testo con aria piuttosto seria, ma dopo una breve frase i monaci più giovani scoppiano di nuovo a ridere. Dopo poche parole, un fraterno abbraccio di accoglienza e l’offerta di un bicchierino di ouzo con alcuni lukumi – le usanze orientali si fanno immediatamente percepire – veniamo invitati a sederci assieme a loro mentre la lettura riprende. È la Vita di Simeone il Folle, scritta da Leonzio di Neapoli. Simeone, un monaco del VI secolo, è il prototipo dei “folli in Cristo”, strani personaggi che si fingevano folli nella loro ascesi sia per stornare da sé la fama di santità, sia per ricondurre i cristiani alla “follia della croce” (1 Cor 1,18), per essere eco della parola di Dio non con un linguaggio sapiente ma con l’efficacia del mimo profetico, con lo smascheramento dei difetti umani, con l’ironia verso atteggiamenti, pensieri e azioni che si pretendono sensati o devoti ma che in realtà lasciano spazio all’ipocrisia e alla doppiezza.
Del resto anche il re Davide si finse pazzo di fronte ad Abimelech: “Io sono folle nel Signore, chi è povero ascolti e si rallegri” (Sal 34,1-2) e fu disprezzato come insano dalla moglie Mikal per la sua danza sfrenata di fronte all’arca della presenza del Signore (cf. 2Sam 6,15-16). E Antonio, il padre dei monaci, non aveva forse profetizzato un tempo “in cui gli uomini impazziranno e al vedere uno che non sia pazzo gli si avventeranno contro dicendo: Tu sei pazzo! A motivo della sua dissimiglianza da loro”? E che dire di un monaco erudito e raffinatissimo come Bernardo di Chiaravalle che amava definirsi “giullare – lo stesso termine che ritroveremo applicato a san Francesco – e saltimbanco” e non esitava a riconoscere che “la vita [di noi monaci] appare ai secolari come un gioco, perché ciò che essi desiderano in questo mondo noi al contrario lo fuggiamo e ciò che essi fuggono noi lo desideriamo”?
Simeone e altri padri del deserto, cantori come lui della “sapienza della croce”, non esitavano a infrangere regole di convenienza e di pudore e ad assumere atteggiamenti capaci di destare il riso pur di mostrare il loro amore folle per il Signore e chiamare gli uomini a conversione. Certo, doveva sembrare pazzo Simeone che entra in città trascinando alla cintura un cane morto e poi, in chiesa. comincia a tirare noci alle candele per spegnerle. Quanti lo vedevano reagivano sì dandogli del pazzo, ma non potevano esimersi dall’interrogarsi sul senso di gesti inconcepibili o addirittura blasfemi. Perché un monaco che ha fama di santità si mette a saltare e danzare con delle attrici e partecipa ai giochi del circo lasciandosi toccare dalle prostitute, oppure entra nudo nei bagni pubblici riservati alle donne? E perché colma di baci le porte dei postriboli e sputa su quelle delle chiese? Vorrà forse ricordare la frase di Gesù che proclama “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno”? O vuole smascherare le oscenità che noi teniamo ben nascoste dietro comportamenti esteriori “corretti”? Il suo non sarà un modo provocatorio per farci riflettere sulla facilità con cui giostriamo tra vizi privati e pubbliche virtù?
Per Simeone, prendersi gioco del mondo era il mezzo per guadagnare il mondo al suo Signore: i suoi rapporti con i mimi – la cui professione, come quella degli attori, era considerata immorale – e la sua frequentazione di prostitute mirava a distoglierle dal loro modo di guadagnarsi il pane. Al contempo, chi delle prostitute si serviva poteva interrogarsi se non fosse più immorale vivere nel lusso opprimendo i poveri o esercitando la violenza. Non a caso i demoni si ribellano a Simeone come avevano fatto di fronte a Gesù: “O folle, che ridi del mondo intero, sei venuto a importunarci? Vattene di qui, non sei dei nostri. Perché ci tormenti?”.
Forse oggi non siamo più capaci di ridere o sorridere per gesti così follemente saggi perché quando ridiamo non vogliamo pensare, ma confesso che la lezione di sano umorismo che ricevetti quel giorno da p. Placide e dai suoi monaci mi è servita sì a non prendermi troppo sul serio, ma anche a capire che dietro a una risata può esserci la voce del Signore che chiama a conversione.
ENZO BIANCHI
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