Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Un contratto con l'ambiente

12/02/2012 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2012,

Un contratto con l'ambiente

La Stampa

La Stampa, 12 febbraio 2012
di ENZO BIANCHI

Davvero la nostra giustizia dipende anche dal rapporto con la terra e con tutte le creature che essa ci dona  

 

La Stampa, 12 febbraio 2012

 

Nelle prime pagine della Bibbia l’essere umano, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, riceve da Dio un comando: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela, e regnate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Gen 1,28). Parole che delineano il rapporto tra l’uomo e la terra. Gli umani devono essere fecondi, moltiplicarsi sull’estensione della terra, abitarla affinché la terra sia loro dimora, devono avere con la terra quel rapporto che lega un uomo alla sua donna, un re al suo popolo: un rapporto sponsale, regale. All’uomo però – non è dato da Dio un potere oppressivo, arbitrario, violento, sfruttatore, perché di questa terra l’uomo, «fatto poco meno di Dio» (Sal 8,6), è signore come mandatario, amministratore a nome di Dio. Ecco perché nel più antico racconto della creazione sta scritto che nel collocare l’uomo sulla terra «il Signore Dio lo pose in un giardino perché lo coltivasse (lett. “lo servisse”) e lo custodisse» (Gen 2,15). La terra infatti non è dell’uomo, continua ad appartenere a Dio! Gli uomini tutti ne hanno il possesso, non la proprietà, e devono rispondere a Dio del mandato loro affidato: gli uomini cioè sono innanzitutto responsabili della terra. Questo perché secondo la Bibbia la terra è madre dell’uomo, essendo la adamà da cui è tratto l’adam, l’umano, il terrestre (cf. Gen 2,7), il quale significativamente alla terra fa ritorno (cf. Gen 3,19).

 

Ma dire che la terra è madre, dunque affermare la comunanza tra terra e umanità, non può significare fare della terra Gea, la madre terra inviolata, né richiede di instaurare un rapporto feticistico tra uomo e terra, come se l’uomo dovesse venerarla e adorarla. Questa comunanza significa invece che da tale rapporto dipende la qualità della vita umana, dell’ambiente, della natura sempre in relazione con la cultura. È vero che una certa lettura cristiana della Bibbia ha permesso di isolare l’uomo dalla creazione, di fare della terra uno scenario a sua completa disposizione, di favorire una fede a-cosmica, con il risultato di autorizzare il potere umano a sfruttare, consumare, calpestare la terra, vantando sulla terra solo diritti, senza mai sentirsi responsabile anche di doveri nei suoi confronti.

 

In verità questo è avvenuto, soprattutto nel secondo millennio, a causa di un’interpretazione antropocentrica di alcuni passi scritturistici, che ha ritenuto l’uomo superiore alla terra e a tutti i suoi inquilini, un uomo dai tratti prometeici. Una corretta lettura della Bibbia è invece teocentrica, non antropocentrica: al centro non sta l’uomo ma Dio. L’uomo è sì collocato quale sovrano della terra, ma in una comunione di co-creature, in uno spazio condiviso con altri co-inquilini, in una situazione che lo rende altro dagli animali, in quanto creato a immagine di Dio, ma animale egli pure tra gli animali, perché una stessa vita è condivisa da entrambi.

 

Statuto complesso, quello dell’uomo: ontologico ed ecologico, inserito nella natura ma capace di trascenderla, nella natura ma mai senza la cultura, nel ciclo naturale della vita e della morte ma dotato di una sete, di un senso di eternità. In questo delicato equilibrio non regna né l’antropocentrismo né il biocentrismo, ma Dio sta al centro, come presenza capace di dire che la creazione non è un caso, bensì il prodotto di un progetto di sapienza e di amore. Non tutto è Dio (panteismo), ma tutto viene da Dio e la promessa è che Dio sarà tutto in tutti e in tutte le cose (pan-in-teismo). Per il cristiano questo Dio che ha voluto il cielo e la terra «non è lontano da ciascuno di noi, perché in lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,27-28); è il Dio che dice: «Io riempio della mia presenza il cielo e la terra» (cf. Ger 23,24).

 

Ci sono stati secoli in cui l’ambiente ecologico, la natura era più forte dell’umanità, in cui l’uomo per certi aspetti doveva difendersi dalla natura. Oggi invece è proprio l’ambiente ecologico che è diventato fragile, sovente è diventato vittima dell’uomo, al punto che l’uomo ormai con la sua potenza nucleare è in grado di distruggere la terra. Siamo così diventati responsabili della terra al massimo grado, responsabili della nostra potenza: in quest’ottica ciò che è più difficile è controllare il nostro potere, è non cedere all’eccesso, alla dismisura. La sfida etica ci chiede di acquisire il controllo, la padronanza del nostro potere tecnico-scientifico, ponendo un limite alle nostre azioni e ai nostri progetti; ci chiede di riconoscere che esistono dei diritti della natura, dell’ambiente, dei diritti di tutti i nostri co-inquilini sul pianeta. Questo è un passo che occorre fare a livello di coscienza sociale, fino a esprimere questi diritti mediante istituti e legislazioni giuridiche. E se l’ambiente è titolare di diritti, noi umani abbiamo dei doveri, abbiamo una precisa responsabilità che, se non assunta o violata, ci rende trasgressori della legge necessaria alla convivenza, all’abitare la terra, al costruire un mondo più sinfonico e più bello.

 

È quindi innanzitutto necessaria un’etica della responsabilità, che si preoccupi dell’avvenire della specie umana e della terra. Hans Jonas l’ha formulata mediante il seguente imperativo categorico: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Il principio responsabilità). Se un tempo la responsabilità significava rispondere dei propri atti passati e presenti, ora essa è tale anche verso l’avvenire, verso il futuro del pianeta e dell’universo. È il futuro in cui gli abitanti della terra saranno le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti, che richiede la mia responsabilità oggi, perché oggi l’uomo può distruggere la terra: da questo potere nascono obblighi, doveri. Come siamo giunti a elaborare un «contratto sociale», oggi dobbiamo andare al di là del sociale e del politico per elaborare un «contratto naturale», un contratto con l’ambiente! Questo però senza mai dimenticare che la questione ecologica e la questione sociale sono due aspetti del medesimo disordine da noi provocato, sono due frutti della medesima volontà di potenza, del medesimo sfruttamento che non conosce doveri né limiti, del medesimo edonismo che pensa solo a se stessi, senza gli altri e contro gli altri. Quando si giunge a trattare le persone solo in funzione della loro capacità di produrre e di possedere, si finisce anche per trattare la natura e gli esseri viventi solo in funzione di un loro possibile sfruttamento, solo in funzione del loro valore di mercato…

 

Ma accanto alla responsabilità vorrei aggiungere un’altra necessità in vista di un’etica rispettosa della terra: la sobrietà. So che è una parola detestata, spesso anche derisa, ma oggi più che mai siamo ammoniti: le risorse della terra non sono infinite, lo sviluppo non è in costante crescita, la produzione non è illimitata, i consumi non possono più essere sfrenati. Per questo bisogna ritornare a quella parola che è attestata con grande frequenza nella Regola di Benedetto: mensura, misura. Misura del cibo, dei consumi, del tempo libero, del lavoro… Misura, cioè sobrietà, moderazione: atteggiamenti attraverso le quali noi umani riconosciamo il nostro limite di terrestri. Misura, in senso ecologico, significa che dobbiamo lasciar cadere le pretese che non riguardano i bisogni fondamentali ma che invece sono indotte o addirittura imposte come esigenze alienanti dalla società dei consumi. Occorre che ci liberiamo dei desideri superflui per acquisire anche una capacità critica, una libertà, e non essere piegati alle richieste prepotenti del mercato. Talvolta occorre anche una rinuncia; oppure, per usare un termine bandito dal nostro linguaggio, un sacrificio, cioè la disponibilità a privarci di qualcosa, nel caso che la nostra soddisfazione passeggera provochi danno all’ambiente e alle creature di cui siamo co-inquilini, ad altre genti o ad altri popoli.

 

Edgar Morin, tra gli insegnamenti necessari per il futuro include anche quello relativo all’identità terrestre dell’uomo (cf. I sette saperi necessari all'educazione del futuro): chiede di conoscere l’umano situandolo nel mondo, sulla terra, senza distaccarlo o distinguerlo da essa, perché qualunque oggetto della conoscenza deve sempre essere contestualizzato per essere pertinente. La domanda: «Chi siamo noi?» è inseparabile dalle domande: «Dove siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?». Dunque integrare la condizione umana, la nostra situazione nel mondo è decisivo per conoscere la nostra identità terrestre e saper vivere il nostro rapporto con la terra, questo «terzo satellite di un sole detronizzato dal suo seggio centrale, divenuto astro pigmeo errante tra miliardi di stelle in una galassia periferica di un universo in espansione». La terra è l’unico pianeta sul quale, almeno per oggi, sappiamo esserci vita umana, sappiamo esistere questa specie di animali biologici ma anche esseri culturali, gli animali umani: umani nel senso che l’uomo non è compiuto pienamente se non dalla cultura e nella cultura; umani nel senso che sono capaci di sentirsi responsabili degli altri co-inquilini animali, vegetali e minerali; umani perché capaci di com-passione, di soffrire con questa terra, capaci di sim-patia con tutte le creature; umani perché capaci di abitare la terra, ricercando e perseguendo la pace: una pace non solo tra gli uomini ma cosmica, cioè lo shalom, la vita piena per tutta la terra.

 

Così ammoniva il Siracide: “Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, vino, olio e vestito. Tutte queste cose per chi è giusto sono il bene ma per chi è ingiusto diventano male (Sir 39,26-27). Davvero la nostra giustizia dipende anche dal rapporto con la terra e con tutte le creature che essa ci dona.

 

Enzo Bianchi