Centro Astalli per i rifugiati - Roma
23 aprile 2015
di Enzo Bianchi
Introduzione
Cari amici,
vorrei innanzitutto dirvi grazie per l’invito ricevuto: grazie al Centro Astalli, ma anche a tutti coloro che operano nel Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia, voluto da p. Pedro Arrupe. Sono qui tra di voi per ascoltare, vedere, rendermi consapevole di una situazione drammatica che voi vivete immergendovi in essa, in piena solidarietà, a caro prezzo. Dopo l’ascolto del Rapporto occorrerebbe non tanto ascoltare la mia breve riflessione, quanto piuttosto riflettere su ciò che abbiamo ascoltato…
Vorrei dirvi il sentimento di vergogna che provo e anche il sentimento di indignazione che rinnovo ogni giorno da più di un decennio, per questo nostro affondare sempre più in una barbarie che nega, stravolge, calpesta quella virtù umanissima che proprio qui nel Mediterraneo si era affermata nell’antichità e nella storia cristiana come la prima urgenza per il cammino di umanizzazione. Non a caso philoxenía (amore per lo straniero) era diventato il nome dato all’azione di ospitalità verso i tre stranieri compiuta da Abramo (cf. Gen 18,1-16; Eb 13,2), icona che ispirava l’azione doverosa verso chi, sconosciuto, giungeva e appariva, venendo da lontano: straniero, migrante, rifugiato, pellegrino, nomade, fuggitivo…
Vorrei inoltre dire a voi che aiutate uomini e donne, in quanto fratelli e sorelle in umanità, di chiedere loro perdono a nome nostro: noi non sappiamo impedire le tragedie che spingono i rifugiati fin qui, restiamo indifferenti verso questa gente che nutre il sogno umano di vivere senza violenza e senza fame. Chiedete perdono anche per quanti tra di noi arrivano a essere blasfemi verso queste tragedie che si ripetono ogni giorno, arrivano al dileggio e al sarcasmo, come abbiamo ascoltato nei talk show in questi giorni: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che dicono!” (cf. Lc 23,34)…
In verità siamo soprattutto noi i responsabili di queste tragedie, di questi esodi che si concludono spesso per molti uomini e donne nell’essere sommersi nel Mediterraneo, e poi nell’essere citati come un numero riportato dai media, un numero di morti che non siamo capaci di leggere nel loro proprio volto, come la vita di un uomo, di una donna, di un bambino che hanno la nostra stessa dignità e importanza davanti a Dio. Quando nel 2006 scrissi il libro Ero straniero e mi avete ospitato, dedicandolo a quanti trovavano la morte nel Mediterraneo, non immaginavo che quel dramma si sarebbe ripetuto e sarebbe continuato fino a oggi! E ora confesso di prevedere che continuerà, sarà un grido di vendetta al cospetto di Dio e un’imputazione incancellabile per le nostre coscienze…
Questa nostra consapevolezza, cari amici, lo confessiamo, è aumentata dalla nostra fede, nata e scaturita da situazioni di migrazione come quella di Abramo a Canaan, di rifugiati politici come quella di Mosè a Madian, di migranti per ragioni economiche come quella di Israele in Egitto, di fuggiaschi presso altri popoli come David e alcuni dei profeti. Una fede che con Gesù di Nazaret diventa strettamente legata all’accoglienza degli esclusi dal popolo di Dio, dei gojim, delle genti straniere in un unico popolo, i cui membri portano per sempre il nome di “stranieri e migranti” (pároikoi kaì parepídemoi: 1Pt 2,11), in cammino verso una patria che qui non si trova (cf. Fil 3,20; Eb 11,14). Noi siamo salvati attraverso la fede, ma la Prima lettera di Clemente di Roma ai Corinti afferma: “Per la fede e l’ospitalità praticata (philoxenía) Abramo fu giustificato” (cf. 10,7). Non per la fede soltanto, ma anche per la pratica dell’ospitalità!
1. Gli stranieri e noi
Oggi in Italia, come ormai in tutta l’Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno migratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, culture, lingue, religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l’una all’altra, si trovano a vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a noi. Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione – basterebbe pensare all’emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono – ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l’Europa. La complessità delle situazioni generate dall’immigrazione provoca una serie di interrogativi: “Perché vengono da noi? Non possono restarsene nei loro paesi? Perché così numerosi? Che ne sarà della nostra cultura, del nostro modo di vivere e di convivere?”.
Di fronte a tali interrogativi si impongono certamente alcune constatazioni: da sempre non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane; da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l’avventura della migrazione, malgrado molte e gravi difficoltà. Sì, molte sono le ragioni che spingono migliaia di individui a lasciare il proprio paese: la miseria che cresce di anno in anno, soprattutto in Africa, l’insicurezza e la violenza politica che inducono minoranze osteggiate a cercare asilo altrove – si pensi ai cristiani del Medioriente –, guerre e lotte etniche che creano profughi e rifugiati… A questo si aggiunga anche il sogno di molti che vogliono uscire da condizioni economiche difficili e partecipare alla vita del “mondo dei ricchi”, identificato con l’occidente ricco e consumista.
Ma oltre che interrogativi dalle risposte complesse, la presenza degli stranieri desta in noi anche timori e paure, perché l’altro è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora me lo trovo accanto… Noi italiani poi, abituati a essere terra di emigrazione piuttosto che terra di accoglienza, siamo meno preparati rispetto ad altre nazioni di antica immigrazione anche a causa del fenomeno coloniale. È fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché ci manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla.
Ora, un dato fondamentale di cui tenere conto è che nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la “mia” paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione. Sì, la prima sensazione nel rapporto tra residente che accoglie e immigrato che arriva è la paura: due paure a confronto! E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola bensì assumendola.
Di fronte al sentimento della paura per l’incontro con lo straniero due sono infatti i rischi: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura; oppure, al contrario, assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere anche con la forza contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa. In entrambi i casi si dimentica che l’identità a livello sia personale che comunitario e sociale si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori.
Quando il fantasma dell’identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della religione praticata, allora si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale, in cui si vive un auto-isolamento che si presume dorato ma che in realtà si risolve in un sistema chiuso, senza più incontri con l’altro, in uno spazio asfittico in cui può solo avanzare la barbarie.
2. L’incontro con l’altro: riconoscimento e accoglienza
In Italia solo da qualche decennio conosciamo una presenza numericamente significativa di immigrati stranieri, anche se in percentuale ancora lontane da quelle di altri paesi europei come, per esempio, la Francia e la Germania. Ed è alla luce dell’esperienza maturata qui da noi e negli altri paesi dell’Europa occidentale che è possibile cercare di comprendere come è avvenuto e come avviene l’incontro tra gli autoctoni e gli stranieri: si tratta di approcci e di tappe diverse che sovente, più che succedersi in ordine cronologico, si intrecciano e coesistono.
Una prima tipologia di rapporto è quella della assimilazione, in cui l’incontro con lo straniero tende ad assimilarlo alla comunità che lo accoglie: il nuovo arrivato è sollecitato a comportarsi in tutto come i cittadini della società ospitante. Ma questo è in realtà un rapporto di rifiuto e di esclusione dell’altro perché postula un incontro che nega la differenza. Lo straniero è talmente differente da me che non posso condividere con lui il mio spazio vitale, salvo che lui diventi simile a me, assuma il mio modo di vivere, la mia cultura, la mia storia e mantenga per sé solo minime differenze marginali. Appare a tutti chiaro che un’accoglienza che miri all’assimilazione si nutre di una logica escludente: non è accoglienza autentica.
Un’altra modalità di incontro con lo straniero è quella dell’inserzione, che risponde alla volontà di vivere gli uni accanto agli altri conservando le rispettive differenze. Così l’inserimento dello straniero nel tessuto sociale esistente avviene senza confiscarne l’identità e l’autonomia: ognuno mantiene la propria identità e la inserisce in un tessuto comune dove però le differenze sono giustapposte. Si vive sì gli uni accanto agli altri, ma l’altro resta uno sconosciuto, l’indifferenza regna e consente una coesistenza relativamente pacifica nella società. Il rapporto con l’altro è vissuto nell’indifferenza di fondo, in una logica di accettazione di una minoranza da parte di una maggioranza. Questo tipo di rapporto, a mio avviso, è il più attestato oggi in Italia.
Ma si sta facendo progressivamente strada anche un altro tipo di incontro, quello dell’integrazione. Il rapporto vissuto è quello del riconoscimento reciproco dell’alterità, delle differenze e delle somiglianze, nel dare e nel ricevere, in una logica di eguaglianza senza che l’altro sia ridotto a me. L’integrazione dello straniero consiste nel suscitare la partecipazione attiva alla società nel suo complesso, chiamata alla convivenza su uno stesso territorio, accettando le specificità culturali ma mettendo l’accento su rassomiglianze e convergenze in un’eguaglianza di doveri. L’integrazione è a doppio senso, cerca un avvenire comune per immigrati e residenti. Si tratta indubbiamente di un cammino lungo e difficile, sovente ancora contraddetto ma assolutamente necessario in vista di una società pluriculturale e interculturale sempre in divenire, un cammino doveroso per una fattiva resistenza all’imbarbarimento e per un’autentica qualità umana della convivenza.
Per questo cammino mi pare urgente analizzare non tanto la situazione di partenza dello straniero e il livello delle sue potenzialità di integrazione, quanto piuttosto interrogarsi sulle condizioni che abbiamo creato o che possiamo predisporre per ricevere lo straniero. In quali condizioni umane e sociali ci troviamo noi e la nostra società? Le nostre relazioni con lo straniero non sono forse ancora segnate da esclusione e discriminazione? E le possibilità concrete di accoglienza che apprestiamo non sono ancora segnate da povertà e miseria? Sovente quando attraverso quartieri abitati dagli immigrati, osservando la loro reale situazione di vita mi sento costretto a vedere in essi la caricatura odiosa della nostra propria umanità. Sì, ci dobbiamo interrogare sulla qualità della nostra accoglienza: è eticamente corretto accogliere qualcuno senza potergli fornire casa, pane e vestito, e soprattutto la possibilità di un’esistenza condotta con soggettività e dignità? L’accoglienza è altra cosa dal soccorso di emergenza?
3. Una cultura dell’ospitalità: le condizioni dell’accoglienza
L’essere umano è un essere relazionale: non c’è un uomo senza gli altri uomini, e ogni uomo fa parte dell’umanità, fa parte di una realtà in cui ci sono gli altri. E l’essere umano ha tre modi di relazione complementari, che gli permettono di costruire la propria identità e di vivere:
- la relazione di ognuno con se stesso, con il proprio intimo, cioè la vita interiore;
- la relazione di ognuno con gli altri, con l’alterità, cioè la relazione sociale;
- infine, per i credenti, la relazione con Dio, alterità delle alterità.
In queste tre relazioni sono innestate tre dimensioni dell’essere umano: lo spirito (pensiero, parola, memoria, immaginazione), il cuore (sentimenti, sensi, emozioni) e il corpo, in cui tutto è unificato. Quando un uomo entra in relazione con un altro, con gli altri, tutte queste dimensioni sono impegnate e di ciò occorre essere consapevoli. È all’interno di questa complessità che occorre porsi la domanda: come percorrere i cammini dell’incontro, della relazione con gli stranieri?
Il riconoscimento dell’alterità
Innanzitutto occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di uomo, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza: è uomo, donna, bambino, vecchio, credente, non credente, ecc. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi un’attitudine che ripudia tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Quando si guarda l’altro solo attraverso il prisma della propria cultura, allora si è facilmente soggetti al’incomprensione e all’intolleranza. Claude Lévi-Strauss ha affermato significativamente che l’etnocentrismo è positivo se significa non mettere da parte la propria storia e la propria cultura, ma è negativo se tale cultura è assolutizzata fino ad assurgere a identità assoluta e immutabile.
Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono i soli esistenti ma si può accettare di imparare, relativizzando i propri comportamenti. Nessuna dimenticanza della propria identità culturale, nessuna auto-colpevolizzazione, ma anche nessuna esclusione di ciò che è altro!
L’ascolto
Se ci sono questi atteggiamenti preliminari, allora diventa possibile mettersi in ascolto: ascolto arduo perché interculturale, ma ascolto essenziale di una presenza, di una chiamata che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto – non lo si ripeterà mai abbastanza – non è un momento passivo della comunicazione, non è solo apertura all’altro, ma è atto creativo che instaura una con-fidenza quale con-fiducia tra ospitante e straniero. L’ascolto è un sì, un amen radicale all’esistenza dell’altro come tale; nell’ascolto le rispettive differenze si contaminano, perdono la loro assolutezza, e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.
Ascoltare uno straniero non equivale dunque a informarsi su di lui, ma significa aprirsi al racconto che egli fa di sé per giungere a comprendere nuovamente se stessi: così lo straniero non abita tra di noi ma abita con noi. Non lo si dimentichi: lo straniero cessa di essere estraneo quando noi lo ascoltiamo nella sua irriducibile diversità ma anche nell’umanità comune a entrambi.
La simpatia e l’empatia
Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Inutile negarlo, noi siamo abitati da pregiudizi connessi alle tipizzazioni presenti nei giudizi popolari comuni, ereditati dal passato e conseguenze della memoria collettiva: dire tedesco o turco, per esempio, risveglia in noi immagini che sono pregiudizi rispetto al concreto essere umano turco o tedesco che ci sta davanti… Si tratta quindi di modificare le immagini di noi stessi e dello straniero e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti.
E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con sym-pátheia. Lo straniero, il povero, lo sconosciuto sono quasi sempre ospiti non belli, non piacevoli; per questo si richiede un atteggiamento che si nutra di un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire l’altro e tuttavia tenti di praticare nei suoi confronti un atteggiamento di sym-pátheia, cioè di sentire-con lui. La verità dello straniero ha la stessa legittimità della mia verità, ma questo non equivale a dire che, dunque, non c’è verità o che tutte le verità si equivalgono. No, ciascuno è legittimato a manifestare la propria verità, ognuno deve impegnarsi con umiltà a confrontarsi e a ricevere la verità che sempre precede ed eccede tutti, pur nella convinzione che la propria verità è quella su cui può essere fondata e trovare senso una vita.
Certamente la simpatia decide anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno; empatia che è manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, umanità condivisa.
L’intercomprensione
Ed eccoci al dialogo, esperienza di intercomprensione. È il dialogo che consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.
Dia-lógos: parola che si lascia attraversare da una parola altra; intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture, di etiche; cammino di conversione e di comunione; via efficace contro il pregiudizio e, di conseguenza, contro la violenza che nasce da un’aggressività non parlata, senza dialogo possibile…
La responsabilità
Scriveva Emmanuel Lévinas: “Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro”. Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell’incontro con lo straniero. Questa l’etica che deve regnare quando vogliamo accogliere chi si è avvicinato a noi e quando scegliamo di avvicinarci allo straniero. Incontrare lo straniero non significa farsi un’immagine della sua situazione, ma porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che lo straniero può fare nei miei confronti riguarda lui – dice sempre Lévinas – ma la responsabilità verso di lui impegna me, fino a definire una relazione asimmetrica in cui la reciprocità non è richiesta, una relazione disinteressata e gratuita.
Così la vicenda dell’incontro con lo straniero si fa epifania di humanitas e, per chi crede, incontro con Dio.
Conclusione
Nel suo affresco riguardante il giudizio finale, che deciderà la salvezza o la perdizione di ogni essere umano, credente o non credente, Gesù assicura che il Figlio dell’uomo, colui che esercita il giudizio in nome di Dio, dirà:
Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, … perché ero straniero e mi avete accolto.
Via, lontano da me, maledetti, … perché ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,34-35.41.43).
Cristo si identifica con lo straniero, così come con l’affamato, l’assetato, il povero, il malato, il carcerato: egli è qui e ora nell’uomo, l’unica e sola vera immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), non è altrove… Sì, l’atteggiamento verso lo straniero che vive tra di noi e con noi narra niente meno che il nostro atteggiamento verso Cristo, verso Dio.
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