Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Capodanno senese

25/03/2015 00:00

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

Capodanno senese

ENZO BIANCHI - 25/05/2015

CAPODANNO DELLA CITTÀ
Siena, 25 marzo 2015
Lectio magistralis

di Enzo Bianchi

 

Confesso che ho accettato con gioia l’invito a pronunciare questa lectio, qui in questo palazzo e per questa città di Siena, all’inizio del nuovo anno, significativamente segnato dal giorno dell’umanizzazione di Dio per i vostri padri cristiani, ma confesso anche che ora sono pieno di trepidazione. Parlare a voi e, attraverso di voi, alla città, indirizzare una parola a voi, che possedete un’eredità straordinaria, innanzitutto umana e quindi culturale, politica e artistica, non è facile. Sono consapevole di quello che voi mi avete chiesto e desidero rispondervi con semplicità, pregandovi di pazientare per queste parole che vi parranno insipienti. Cerco soltanto di reagire con la fatica del pensare di fronte alla vostra eredità, della quale spero siate consapevoli, fino a saper leggere le intenzioni dei vostri padri nel costituirla, nell’accrescerla, nel custodirla e nel consegnarla a voi.

Il palazzo in cui ci troviamo è un’opera di eloquenza, è un magistero per tutti noi, per ogni cittadino: le immagini e le parole scritte in-segnano, nel senso che fanno segno, indicano un orientamento a ciascuno e a tutti i cittadini. I “Dialoghi tra terra e cielo” che voi avete voluto si innestano dunque in questo spazio, che il mio intervento vuole soltanto non contraddire ma, semmai, rendere più chiaro e più eloquente nei nostri giorni. Da tre anni sono assiduo abitatore di questa terra, a Cellole di San Gimignano, sovente vengo in questa città per attraversarla, ascoltandone la vita che pulsa e le fatiche che emergono, oltre che per contemplare le bellezze che offre. Quindi non da estraneo, anche se nemmeno da cittadino, oso indirizzarvi un messaggio sostando su quattro parole.

La prima parola è “città”, polis, la realtà che voi siete e vivete. Che cos’è la polis, la città? È una creazione umana, voluta ed esperita dagli umani nei millenni e che è stata ed è ancora il luogo dell’umanizzazione per eccellenza. È nella polis che gli uomini sono diventati più umani; è nella polis che è fiorita la civiltà, l’arte, il pensiero; è nella città che gli uomini e le donne hanno accresciuto la loro soggettività e hanno saputo intrecciarla in vita comune, dando origine alle istituzioni necessarie per ordinare e difendere la vita, strutturando la democrazia, questo compito mai definito per sempre e mai portato a termine, sempre bisognoso di crescere con il cammino di umanizzazione che deve proseguire mostrandosi capace di resistere di fronte a ogni tentazione di barbarie, che è sempre regressione verso l’animale da cui proveniamo.

Ecco perché dove diciamo “polis” diciamo “politica”, questa responsabilità che nasce dall’appartenenza alla polis intesa innanzitutto come societas e come communitas. Politica, parola che oggi purtroppo, soprattutto per le nuove generazioni, non è più parola significativa e invocata, perché parola intaccata nel suo essere vocazione e servizio, parola che ormai patisce disaffezione e suscita apatia democratica. Ha ragione l’antropologo Marc Augé, mio stimatissimo amico, a denunciare la società attuale come abitante i “non luoghi”, cioè capace solo di sostare dove non c’è legame né impegno. Sicché la politica soffre di astenia, non potendo trovare fondamento in uno spazio che sia veramente una polis. Per questa mancanza di fondamento nel tessuto della città, la politica evade sovente dalla realtà, non è più esercitata nello spazio duro e difficile del calarsi sul terreno delle realtà concrete e vissute dai cittadini, non riesce più a compiere azioni che siano coerenti con le ispirazioni e gli ideali – i grandi principi! – e, al contempo, compatibili con la realtà.

Se la polis è una società, allora occorre innanzitutto, da parte dei cittadini, mettersi a caro prezzo, ripeto, a caro prezzo alla ricerca di un orizzonte comune e intraprendere un’azione responsabile conseguente, perché siano praticati cammini di umanizzazione nella società. Si tratta infatti di armonizzare
autorità e libertà,
iniziativa personale e solidarietà di tutto il corpo sociale,
la necessaria convivenza e la feconda e legittima diversità.

Ciò che si deve fare in politica va fatto non per convenienza, non per debolezza, ma per una convinzione assunta e per una responsabilità democratica. Un grande politico, di cui ho voluto e curato la pubblicazione in italiano del diario, Dag Hammarskjöld, che molti ricorderanno come segretario generale dell’ONU, ha scritto: “Merita il potere chi ogni giorno lo rende giusto!”. Oggi, di fronte a una polis che si sfilaccia sempre più, che – secondo l’espressione di Zygmunt Bauman – si fa sempre più “liquida”, occorre ridare respiro alla politica astenica, occorre rinnovare il coinvolgimento di ogni cittadino, fino a rifondare una cultura dell’impegno e del servizio della politica, occorre esercitarsi alla creatività, alla diversità, alla complessità per delineare un orizzonte comune, un orientamento che nella polis sappia radunare le forze per la resistenza alle barbarie e per un rinnovato slancio verso una democrazia sempre ripensata e rideclinata.

La seconda parola su cui voglio fermarmi è “comunità”, communitas. Lo stesso Zygmunt Bauman chiede di prestare attenzione a un’emergenza poco osservata, un’emergenza che tuttavia si impone: è quella che dà il titolo a un suo libro, Voglia di comunità. Egli afferma – e io, assieme a molti altri, concordo – che, nonostante molti segni contrari, nelle nuove generazioni torna questa voglia di comunità. Cosa significa questo per una città, per la polis?

La parola “comunità” o, secondo la cultura greca, “koinonía”, indica una realtà in cui tutto è messo in comune: tutti partecipano a una determinata realtà e così ognuno è “koinonós”, partecipe comunicante con gli altri, parte del tutto di cui gli altri sono a loro volta parte, in una logica di dono, di scambio, di accoglienza reciproca, di edificazione di un progetto comune.

Ma, si noti bene, la parola communitas può essere fatta risalire anche a “cum-munus”, “cum-munera” nella doppia accezione di munus che è “dovere” ma anche “dono”! Roberto Esposito, il filosofo partenopeo, si interroga: qual è la cosa che i membri della comunità (della polis come comunità) hanno in comune?

Hanno in comune un munus:
non una proprietà ma innanzitutto un dovere,
un compito, una responsabilità,
un dono da fare agli altri.

La comunità non è dunque accedere a un possesso, a una proprietà, anzi: la comunità espropria i membri delle loro proprietà più proprie, perché essi devono uscire da se stessi, sentirsi mancanti, aperti agli altri. Entrare nella communitas significa innanzitutto condividere con gli altri, esporsi all’altro: movimento che immette in un circuito di gratuità in cui vi sono e permangono virtù della dipendenza riconosciuta e virtù di un agire razionale indipendente. La comunità è l’insieme di persone unite da un debito che ciascuno vive verso gli altri.

Questo debito, che è anche sempre un dono, non è debito di “qualcosa” ma, innanzitutto, debito che comporta un dono di se stessi. La communitas è vissuta quando in primo luogo uno decide di donare la propria presenza a un altro, agli altri. Pensate cosa potrebbe significare questa rivoluzione – a questo proposito oggi non è esagerato parlare di “rivoluzione” – grazie alla quale nelle famiglie o nelle storie d’amore il primo passo sia dare se stesso, la propria presenza, il proprio tempo all’altro, agli altri… Nelle famiglie, certo, ma anche nel condominio, nella contrada, nella città: solo così si origina la communitas!

In una città, invece, in cui prevale l’egofilia, l’amore per se stessi, in cui l’individuo cerca solo la realizzazione di se stesso, in cui la persona è considerata solo come individuo indipendente da legami vitali, ab-solutus, e dunque, a livello economico, prevale l’interesse individuale, la logica della concorrenza spietata, la vertigine dell’accumulo finanziario, si avrà come primo risultato nella vita di quella polis il venir meno della solidarietà, della corresponsabilità, della reale interdipendenza della vita e, poi, si finirà per scivolare nella corruzione, nel latrocinio di cui purtroppo siamo informati, se non testimoni diretti, ogni giorno.

Nel grande codice della nostra cultura occidentale – così Northrop Frye chiamava la Bibbia – la domanda capitale, che abita la coscienza di ciascuno di noi come voce interiore inestinguibile, risuona così:

“Uomo, dove sei?”;
“Uomo, dov’è tuo fratello?”.

Due domande immanenti l’una all’altra perché io posso dire chi sono solo riferendomi a un altro, e l’altro è definito nella vicinanza o nella lontananza rispetto a me. Qui è la nascita della communitas: essa nasce da una responsabilità verso l’altro. L’altro è altro, e tale deve rimanere; l’altro è unico, ma al contempo io e l’altro siamo destinati alla relazione, al dialogo, al confronto, all’accoglienza reciproca. E questo richiede una grande responsabilità: di fronte all’altro, per poterlo incontrare, devo deporre la mia sovranità e con lui poter dire “noi”!

So di dire queste cose a una città i cui abitanti hanno creduto a questa possibilità di communitas: lo hanno fatto attraverso utopie secolarizzate dopo l’epoca della cristianità, ma lo hanno fatto e hanno costruito la città, una civilitas, una cultura, un’arte del vivere che era umanizzazione… Questa eredità è un mandato per voi, proprio su questo tema della ricostruzione di un orizzonte comune. Resistete alle tentazioni di contraddire la communitas, perché chi vive nello spazio della immunitas si illude di essere senza contraddizioni, ma vive di immagini false di sé e della società, imbocca un isolamento che prima o poi appare disperante, senza senso, che sfocia in una barbarie in cui solo ladri e briganti hanno la reggenza.

La terza parola è bene comune, una parola che appartiene al patrimonio ereditato ma che è stata dimenticata più che contestata. Siamo tutti consapevoli che la nostra società occidentale, e l’italiana in particolare, attraversa da alcuni anni una crisi. “Crisi” è parola tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: “più che una parola – ha scritto Barbara Spinelli – è un albero dai rami molteplici”. Crisi viene da krísis, passare al vaglio: significa separazione, giudizio.

Ai giorni nostri l’applicazione di questo concetto a una corpo sociale, alla polis, alla società, indica una situazione di deperimento, di decrescita, di decadenza. Ci troviamo, e lo affermiamo, in una situazione di crisi, ma dovremmo dire innanzitutto che la nostra crisi è sociale, culturale, etica, antropologica e, quindi, è anche politica ed economica. Politica, perché la politica è astenica, debole e anche afona: paradossalmente “grida” con voce forte perché non ha nulla da dire in verità.

Democratica, perché vediamo qua e là affiorare tentativi di manovre di tirannia compatibile con l’attuale assetto democratico.
Sociale, perché non si è più capaci di un orientamento comune per la società.
Legale, perché l’illegalità sembra prevalere sempre più.
Morale, etica, perché vengono a mancare i principi di giustizia e di uguaglianza.
E infine, ovviamente, crisi finanziaria ed economica, patita da moltissime persone.

Di fronte a questa situazione ecco emergere la necessità di una controtendenza che si può solo esprimere in una ricerca del bene comune. Recentemente François Flahault, direttore del Centre de Recherche sur les arts et le langage di Parigi ha fornito un contributo decisivo su questo concetto con il suo libro Où est passé le bien commun?, “Dov’è finito il bene comune?”. Ecco la domanda che ci dobbiamo porre.

Bene comune – quest’unica espressione composta da due parole – è un concetto essenziale per la convivenza, per la qualità della vita nella polis. “Bene” indica ciò che noi vorremmo e ciò che auguriamo alle persone cui siamo legati: il bene (bonum) è quanto gli uomini e le donne desiderano per vivere in pienezza. Bene comune non è semplicemente un patrimonio comune, qualcosa di materiale posseduto insieme, ma è l’insieme delle condizioni di vita che favoriscono il ben-essere, l’umanizzazione di tutti: bene comune sono anche la cultura, la democrazia, l’arte… Ha affermato Stefano Rodotà: “Bene comune è un concetto che esprime i diritti inalienabili dei cittadini, dal diritto alla vita, al bene primario dell’acqua, fino alla conoscenza in rete”. Il naturale destinatario del bene comune allora non è più l’individuo ma la persona.

Bene comune è un concetto che si è venuto a formulare nell’emergere dell’occidente, e in questo un ruolo primario lo ha svolto nei secoli questa terra del centro-Italia, Firenze, Siena, la Toscana… La società è antecedente all’individuo, come l’unità del corpo è antecedente alle membra che lo compongono: perciò il bene di ciascuno abbisogna del bene comune che lo precede e che gli consente di definirsi. Oggi vediamo dominante la concezione individualistica e utilitaristica della società e pensiamo che l’organizzazione della città debba garantire ai suoi membri i diritti individuali, ma in questo modo riduciamo l’interesse generale alla semplice somma degli interessi individuali e tralasciamo il bene comune.

È proprio vero che l’economia è il fondamento della società e che l’utile ne è la sola ragion d’essere? È proprio vero che ciascuno debba perseguire il proprio interesse e che nessuno possa intervenire a disturbare il gioco? La vita buona riguarda solo la vita privata degli individui oppure i diritti individuali devono essere ottemperati con i diritti degli altri, nella ricerca del bene comune? Ecco perché la vita buona non può essere dettata solo dall’economia e dalla capacità di consumo. Ha detto ancora Marcel Gauchet: “Viviamo in una società in cui si ammette che gli individui hanno una precedenza assoluta, che all’inizio della storia c’erano solo individui e che perciò non si può pensare a una loro coesistenza solidale. Come pensare ciò che li unisce, ciò che devono fare insieme, ciò che devono sperare insieme?” (in La démocratie contre elle-même, Gallimard 2012).

Nell’attuale crisi a livello occidentale occorre tornare alla ricerca del bene comune, anche perché le scienze umane attestano sempre più che “vivere è inter homines esse”: stare tra gli uomini, vivere le relazioni umane è ciò che ci umanizza, ma è anche la prima forma del bene che gli esseri umani conoscono, un bene “comune”. Senza ecosistema relazionale, comunitario, politico, non ci può essere cammino di umanizzazione, ma solo il perseguire interessi individuali ed egoismi competitivi che portano a ingiustizia, ineguaglianza e, di conseguenza, conflitto, violenza, guerra!

L’ultima parola che desidero offrirvi è fiducia. La evidenzio come ultima perché, a mio parere, noi che abbiamo assistito al venir meno della fiducia – che peraltro avevamo vissuto dal dopoguerra fino alla metà degli anni settanta – abbiamo la responsabilità grande di richiamarla come urgente e decisiva, ricordando che la più grande eredità che dobbiamo lasciare alle nuove generazioni è proprio questo sentimento, questo atteggiamento che è fiducia, fede e insieme anche speranza nei confronti degli altri, della terra, del futuro.

Noi umani non possiamo diventare uomini e donne maturi senza porre la fiducia in qualcuno e senza ricevere fiducia da qualcuno. Ognuno di noi è nato perché sentiva in chi lo portava in grembo, in chi poteva accoglierlo e metterlo al mondo questa spinta ad avere fiducia nella vita: ciascuno è venuto al mondo grazie alla fiducia originaria che avevano i genitori nel trasmettere la vita. Anche le nostre storie d’amore sono possibili se e quando una persona sa mettere la fiducia in un’altra, perché la fiducia è ciò che permette di vivere la relazione.

Anche nella polis, nella società solo la fiducia può creare il legame sociale e generare la comunità, soprattutto in un’epoca secolarizzata in cui non è più Dio a offrire legame e consistenza alla società. Oggi tutti soffriamo la crisi di fiducia sul piano economico, politico e identitario: siamo colpiti dal disincanto e il senso del vivere insieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’esistenza della solidarietà. La vita politica offre poi il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini, di una autoreferenzialità che genera diffidenza. Sempre più frequentemente la gente considera i politici “inaffidabili” e l’identità collettiva regredisce in un appiattimento di comunanze di tipo tribale.

Dobbiamo chiederci perché siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di tutti! Certo, la fiducia è realtà fragile e, una volta andata in frantumi, è difficile ricomporla. Eppure dobbiamo reagire, perché la sfiducia è come un’epidemia che si allarga, conquista spazio e pare inarrestabile: non abbiamo più fiducia nella società, ma da lì finiamo per non avere più fiducia nei vicini, poi neppure più nei membri della nostra stessa famiglia… Quando apriamo la porta alla diffidenza, all’esclusione, alla non accoglienza dell’altro e lasciamo che la paura entri in noi, allora limitiamo sempre di più i nostri orizzonti, siamo sempre meno disposti alla collaborazione, vediamo svanire la nostra speranza perché si può davvero sperare solo insieme, e sperare per tutti!

Sì, sono consapevole di chiedervi ciò che può sembrarvi paradossale e impossibile, ma per tornare alla fiducia bisogna che ci esercitiamo a mettere fiducia negli altri, molta più fiducia di quanta razionalmente giudichiamo che gli altri si meritino… È così tra marito e moglie, tra compagno e compagna, tra genitori e figli, tra amici, tra cittadini. Anche qui si tratta di resistere al “così fan tutti” e compiere dei passi per aver fiducia negli altri, nel futuro, nella storia su questa terra. La fiducia si impara facendo fiducia e facendola più di quanto pensiamo e giudichiamo sia giusto e razionale! Occorre fare fiducia senza mai lasciarci vincere dalla paura e vigilando, nella consapevolezza che le paure sono sempre presenti e che sempre esistono poteri che le cavalcano e le strumentalizzano per rubarci la fiducia stessa, la quale fa di ciascuno di noi un attore sociale, un protagonista libero e convinto.

Cari cittadini di questa polis, vi ho parlato di fatto dell’eredità che avete ricevuto e che dovete, semplicemente e con consapevolezza, accogliere e assumere come “senesi”, in questa polis che è la vostra ma che appartiene anche al patrimonio dell’umanità: un’eredità sempre in cambiamento, ma che vi affida il dovere di conservare un’anima e di non diventare un agglomerato senza communitas.

Al termine di questa riflessione vi lascio solo una parola convinta:
la città in cui vivete è un magistero vivente,
è nata dalla fede/fiducia
si è voluta come una communitas
è fiorita nella buona convivenza
ha conosciuto un’economia partecipata e capace di solidarietà
si è espressa nell’arte e, ludicamente, continua a esprimersi nel Palio...
Voi siete responsabili di una preziosa eredità: non tradite la fiducia che da tante parti si ripone in voi.

Grazie!