Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Il presbitero e la povertà evangelica

05/06/2014 00:00

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

Il presbitero e la povertà evangelica

ENZO BIANCHI - 05/06/2014

Serra San Bruno, 5 giugno 2014
Ritiro dei vescovi e dei presbiteri della Calabria

Carissimi padri e vescovi, carissimi fratelli presbiteri,
ho accolto con gioia l’invito ad essere tra di voi eco della Parola del Signore e dunque vi ringrazio di cuore non dimenticando di essere già stato tra di voi per una stessa convocazione di vescovi e presbiteri al santuario di San Francesco da Paola ormai vent’anni fa. Sono particolarmente contento per il tema che mi avete assegnato, un tema cui ho sempre dedicato molta attenzione nella mia ricerca e che ora grazie al magistero di papa Francesco è tornato ad essere sentito come un’urgenza in tutte le chiese. Quel suo “Ah, come vorrei una chiesa povera e per i poveri!” all’inizio del suo ministero petrino sta attraversando la chiesa e destando domande, muovendo una conversione dei cuori dopo una stagione di mancata rilevanza e anche di dimenticanza di questo tema.
Per quanto poi riguarda il tema povertà e ministero farei anche questa precisazione: in Concilio si toccò il tema della povertà del presbitero, e resta memorabile l’intervento del cardinal Lercaro su Servizio presbiterale e povertà nel quale si diceva con forza che “la situazione dei poveri secondo il vangelo e la pratica cristiana della povertà non riguardano solo il comportamento morale del cristiano e della chiesa, ma toccano il mistero intimo e personale del Cristo: cioè non costituiscono un aspetto, sia pure sublime, di morale e di filantropia, ma un momento essenziale della rivelazione di Cristo su se stesso, una parte centrale della cristologia”.
Nonostante l’indicazione di questa via nel postconcilio il presbitero ha cercato giustamente le radici della sua spiritualità nel suo ministero stesso, senza più ricorrere alle spiritualità del genitivo o alle varie scuole di spiritualità. Questo mutamento nell’indirizzo della vita spirituale da trovare fondamenti in ciò che il prete è, fa, opera celebrando i sacramenti, commentando la Parola e avendo cura pastorale della chiesa non incrocia più il tema della povertà se non con una ripresa residuale dei temi classici dei consigli evangelici.
Ma in realtà il nesso tra ministero e povertà è ben più radicale e trova la sua ragione nel legame tra povertà e sequela, tra povertà e fede. Il prete che come credente vive il suo ministero come “forma della sequela di Cristo” impara che solo come un povero può vivere il suo essere prete in quanto figura spirituale. In questo senso mi pare si svolga anche il discorso della vostra Conferenza episcopale con il testo “Sostenere i presbiteri” dell’11 febbraio scorso.
Dopo questa premessa ecco dunque l’itinerario della mia riflessione:

1. Il tema “poveri e povertà”

2. Gesù e la povertà

3. Alcune indicazioni su come vivere la povertà nella vita presbiterale.

 

1. Poveri, povertà
“Poveri” e “povertà” sono parole molto frequenti nel nostro linguaggio, sono termini che tentano di significare situazioni e realtà alquanto diverse. Soprattutto nella tradizione cristiana appare necessario operare un discernimento, fare delle distinzioni e cogliere le diverse forme di povertà nelle quali ci imbattiamo quando incontriamo uomini e donne o quando giungiamo a considerare noi stessi.
Prima di leggere la povertà sotto l’ispirazione del Vangelo, è dunque bene fare alcune precisazioni su di essa. Potremmo distinguere
una povertà antropologica,
una povertà come condizione materiale,
una povertà spirituale, interiore.

 

1. Povertà antropologica

La povertà più evidente è certamente quella antropologica, quella precarietà, quella fragilità che ha l’apice nella mortalità inerente alla condizione umana. Nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. La morte, soprattutto, ci incute paura, rende la nostra condizione “alienata” (cf. Eb 2,15), e in questa fragilità soffriamo una mancanza. L’uomo è radicalmente povero, sempre bisognoso innanzitutto dell’altro, degli altri, dell’Altro, costantemente tentato di fuggire questa povertà, di non vederla e di rimuoverla, elaborando strategie per sottrarsi a essa. Perché accumuliamo ricchezza, perché siamo preda della frenesia del consumo, perché siamo tentati dalla vertigine del piacere, perché cerchiamo il potere e il successo? Perché la nostra povertà radicale ci fa soffrire, perché la prospettiva della morte ci pare ingiusta e noi cerchiamo di combatterla, di negarla, di renderla il più possibile inefficace.
Molti testi biblici esprimono con efficacia questa povertà. Eccone solo due esempi:

Ogni uomo è come l’erba
e la sua gloria è come un fiore del campo …
Secca l’erba, appassisce il fiore,
ma la parola del nostro Dio rimane in eterno (Is 40,6.8).

Fammi conoscere, Signore, la mia fine,
quale sia la misura dei miei giorni,
e saprò come sono fragile (Sal 39,5).

I filosofi non hanno mai smesso di meditare su questa condizione umana di povertà, vulnerabilità, fragilità, precarietà. Tutti gli uomini e le donne conoscono questa povertà umana, anche se la vivono in modi molto diversi, più o meno alienati dalla paura della morte, spinti all’idolatria, dove “l’idolo”, che “è un falso antropologico prima che teologico” (Adolphe Gesché), sembra liberare dalla povertà, dalla condizione di mancanza e di bisogno.

 

1. Povertà come condizione materiale

La povertà reale, materiale, è quella che può essere misurata sul piano sociale, economico, culturale. Per comprenderla, è molto meglio parlare di poveri, ovvero persone che si trovano in una condizione di indigenza, che mancano di beni necessari (casa, vestito, cibo, salute) e anche di beni essenziali, anche se non “cose”, come la libertà, il riconoscimento, la giustizia. Si riconoscono bene i poveri solo quando li si incontra, nella prossimità, nella possibilità dell’incontro dei volti, occhio contro occhio, nell’ascolto dei loro bisogni, nella capacità di sentirsi responsabili nei loro confronti.
I poveri sono sempre segno dell’ingiustizia, dell’oppressione degli uomini su altri uomini, sono generati dalle relazioni interpersonali: qui si misurano giustizia e ingiustizia, fraternità e non riconoscimento del fratello. Sempre i poveri sono vittime di un non riconoscimento da parte di altri. Sì, i poveri sono il segno dell’ingiustizia che regna nella storia, segno del peccato del mondo; e sono una presenza necessaria nella chiesa come una provocazione. Se i poveri non sono presenti nella chiesa allora questo significa che la chiesa non è prossima ai poveri, che la chiesa non è in grado di vederli e di discernerli. Si ricordino a questo proposito le parole di Gesù: “I poveri li avete sempre con voi!” (Mt 26,11) e quelle del salmo: “Beato chi discerne il povero e il misero” (Sal 41 [40],2 LXX). Le forme della povertà materiale sono molte e diversificate, e il rinvenimento del povero è un’operazione non facile nelle nostre società. Questo però senza mai dimenticare che ogni uomo è radicalmente un povero: spetta a noi, solo nella prossimità, ascoltare e leggere la povertà in cui ci imbattiamo incontrando una persona.
Questi poveri reali, nel linguaggio del Nuovo Testamento e nella traduzione greca del testo ebraico della Bibbia, sono designati soprattutto con il termine ptochoí, persone senza mezzi che devono ricorrere all’aiuto degli altri, che sono in una situazione di dipendenza. Sono questi poveri ai quali è rivolta la prima beatitudine dei Gesù nel vangelo secondo Luca: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20). Sono questi poveri che gridano a Dio nella loro condizione di sofferenza, di privazione, di ingiustizia, di oppressione da parte di altri uomini o di poteri di questo mondo. Sono questi poveri di fronte ai quali stanno i ricchi che “hanno”: hanno beni, hanno case e campi, hanno denaro, hanno terre, possiedono e hanno il potere…

 

1. Povertà spirituale, interiore

Ma c’è anche un’altra povertà, rilevata soprattutto dalle Scritture: quella povertà interiorizzata, spirituale, che si nutre di un distacco dai beni, dalle ricchezze, dal potere, dal successo, non per una filosofia cinica o stoica, neppure in parallelo al distacco buddhista, ma come una mancanza che si vive per una grande fede-fiducia nel Signore. In questa povertà interiore, infatti, non si cerca una “serenità”, un’”atarassia” per non soffrire, ma si vuole essere colmati dalla presenza del Signore, si vuole avere solo Gesù Cristo come Signore da seguire, da amare, da servire negli altri. È una povertà animata e sostenuta dallo Spirito santo, che con le sue energie permette un abbandono in Dio, una fiducia in lui, un non fidarsi dei beni, del potere, del successo.
Nell’Antico Testamento è testimoniata questa coerenza spirituale che giunge alle soglie del Nuovo Testamento e che è vissuta dagli ‘anawim, i curvati: questi sono credenti che vivono una condizione precaria, insoddisfatta, senza terra, senza patria, senza tempio, senza culto e istituzione che aiutano a vivere. Ma ecco la loro confessione: “Siamo diventati i più piccoli, siamo umiliati, non abbiamo né re né capi … abbiamo solo un cuore contrito e umiliato … ti seguiamo con tutto il cuore, cerchiamo, o Dio , il tuo volto” (cf. Dn 3,37-41).
Questi poveri sono gli ‘anawim indicati dai profeti come il resto, la porzione fedele al Signore e in sua attesa; sono “un popolo umile e povero” (Sof 3,12) che confida nel Signore, un popolo che Dio guida secondo giustizia (cf. Sal 25,9), la loro povertà diventa fiducia illimitata e umile, attesa del Signore e speranza solo in lui (cf. Sal 131). Nel linguaggio del Nuovo Testamento sono i tapeinoí, i poveri, i piccoli, gli ultimi, gli umili e umiliati. Nel suo cantico Maria magnifica il Signore perché ha guardato proprio a questa sua tapeínosis, “povertà, umiltà” (Lc 1,48), condizione nella quale il regno di Dio è l’assoluto, è la sola cosa cercata e necessaria (cf. Mt 6,33). Il Regno relativizza tutto: possesso di beni,famiglia e legami, la vita stessa e la morte.

Dopo queste brevi e certamente insufficienti precisazioni, possiamo ora cercare di capire il legame tra la povertà così intesa e il Vangelo.

 

2. Gesù e la povertà

1. La povertà vissuta da Gesù

La povertà – come vedremo in seguito – è un tema cristologico, cioè non è possibile dare un’identità a Gesù di Nazaret senza la povertà. Non a caso l’Apostolo Paolo sintetizza la venuta di Gesù quale Figlio di Dio sulla terra come una discesa dalla ricchezza alla povertà: “Da ricco che era si fece povero per noi” (cf. 2Cor 8,9).
Ma cominciamo a interrogarci sulla povertà nella sua vita, sulla sua condizione sociale, sulla sua posizione economica. Gesù non apparteneva alle classi più povere della società palestinese, non era un misero, un indigente. La famiglia in cui era nato e cresciuto era sostenuta dal padre Giuseppe, un artigiano di villaggio, dunque non era una famiglia di ultimi della società. Non sappiamo nulla di certo sui suoi “anni oscuri”, dalla giovinezza fino all’apparizione pubblica quale predicatore itinerante, ma sappiamo che non ha frequentato scuole di rabbini (tutte a pagamento) e che non ha conseguito titoli che potevano dargli un riconoscimento.
Se questo riconoscimento c’era da parte di uomini e donne, era dovuto al suo essere carismatico, alla sua autorevolezza (exousía: Mc 1,22.27) che gli derivava dalla coerenza, non da gradi, titoli o appartenenze conseguite. Se ha vissuto, come dicono i vangeli, quale discepolo del Battista nel deserto, possiamo intuire la povertà ascetica della sua vita, come quella del suo maestro e profeta Giovanni. Possedeva una casa? Difficile dirlo. I vangeli ci parlano di uno “stare in casa” di Gesù, e per devozione si è dedotto che fosse la casa di Pietro a Cafarnao, ma può darsi che fosse la casa della sua compagnia vissuta con i discepoli. La sua vita era itinerante, semplice, sobria, e il suo tenore di vita era determinato dal lavoro della pesca fatto dai discepoli, dall’accoglienza ricevuta in casa di amici e simpatizzanti, da una “cassa comune” (Gv 12,6; 13,29) della comunità nella quale affluivano anche doni (Luca ci riferisce che alcune donne lo aiutavano con i loro beni: cf. Lc 8,2-3) e da inviti a tavola che Gesù non disdegnava presso persone ricche, notabili o pubblicamente peccatrici.
Insomma, Gesù non era un benestante, tanto meno ricco, ma nella sua vita non ha sofferto la fame o la grave indigenza: una vita di povera gente, semplice ma decorosa… Una vita connotata da precarietà, relativa insicurezza materiale, incertezza del futuro per vivere l’abbandono fiducioso a Dio suo Padre. Questa povertà di Gesù si fa evidente nella sua postura di persona che aveva “rotto” con la famiglia, con il clan di provenienza, che in quella società era determinante, non riconoscendo a essa il limite ultimo e invalicabile del proprio sistema di valori. La parentela per lui significava soltanto un legame che non poteva essere l’ultimo riferimento di interesse, né un’appartenenza più forte delle altre: povertà, dunque, come non possibilità di aiuto e di solidarietà familiare. La sua povertà diventa l’alveo della sua libertà!
Resta significativo che, come fu presentato al tempio, dopo quaranta giorni dalla nascita, con l’offerta del povero (“una coppia di tortore o due giovani colombi”: Lc 2,24; cf. Lv 12,8), così morì: in un processo ingiusto in cui nessuno lo difese, in cui invece c’erano falsi testimoni pagati da chi aveva denaro e potere, senza che nessuno facesse manifestazioni o rimostranze pubbliche in suo favore. Povertà fino alla solitudine dell’abbandonato, di chi conta poco, di uno schiavo degno dunque della croce.
Questa la forma paupertatis di Gesù di Nazaret, che si innestava sulla sua assunzione della povertà radicale, umana. Lui che come Figlio di Dio “era in condizione divina” di potenza, gloria e onore, anziché tenere stretta e conservare gelosamente questa situazione come un privilegio, la abbandonò per assumere la condizione umana radicalmente povera e alienata, quella della schiavitù. “Svuotò se stesso” (verbo kenóo), dimenticò, mise per così dire tra parentesi quei privilegi, quelle prerogative divine e si fece uomo, sárx, carne mortale e fragile. Non solo si fece uomo nella povertà esistenziale, ma assunse la povertà dello schiavo, alienato, ridotto a res, oppresso e condannato dagli uomini, “fino alla morte e alla morte di croce” (cf. Fil 2,6-8). È questa povertà che definisce l’essere di Gesù Cristo. Questa logica dell’incarnazione è rivelativa e conoscerla è grazia secondo Paolo (cf. 2Cor 8,9). Per fare un dono Gesù non ha voluto farlo dall’alto ma scendendo in basso accanto agli uomini, diventando uomo tra gli uomini, che non si è vergognato di chiamare fratelli (cf. Eb 2,11). Non un “dono-concessione”, fatto da chi è ricco, superiore, ma un dono fata da fratello… un dono fatto da chi è non più ricco, si è spogliato, ora è povero. Ricordate l’insegnamento di Gesù ai discepoli: “Quanti pani avete?”. Pochi! Ma: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37). I discepoli sono abilitati a dare ai bisognosi quando sono diventati consapevoli della propria povertà (pochi pani: cinque!). Allora possono dare se stessi e fare il vero dono - il “pane unico” (cf. Mc 8,14-21) - ai poveri, come intendeva Gesù che dava il pane per mangiare e dava se stesso nella medesima intenzione!
In questa esistenza umana Gesù accettò la forma paupertatis materiale, assunse quella umana, esistenziale, e visse nella povertà interiorizzata del credente che spera solo nel Signore, dell’‘anaw, il curvato dagli uomini su cui regna soltanto Dio. Anche la sua formazione era avvenuta in ambienti caratterizzati da figure come Zaccaria, Elisabetta, i suoi genitori, le comunità a forte tonalità escatologica presso il mar Morto, ‘anawim in attesa del giorno del Signore, chiamati non a caso anche ebionim, “poveri”.
La povertà di Gesù? La definirei quella
di un uomo come noi,
di un povero tra poveri,
di un “Messia al contrario”,
che si è manifestato solo come un “servo del Signore”, l’‘ebed Jhwh.

 

In Gesù dobbiamo contemplare
la scelta della kénosis, di diventare sárx (cf. Gv 1,14),
la sua fedeltà alla comunità degli ‘anawim,
la sua scelta della povertà di vita e di missione, ben espressa nel racconto delle
tentazioni, dove Gesù rifiutò il possesso dei beni e il successo messianico (cf. Mt 4,1-13; Lc 1,13).

 

Dovremmo tornare molto più spesso al verbo kenóo e al sostantivo derivato kénosis, per cogliere la “situazione” di Cristo Gesù: azione di chi si svuota, si spoglia (heautòn ekénosen: Fil 2,7), perde ciò che ha. Dovremmo anche meditare sul verbo tapeinóo, “abbassarsi, umiliarsi” (etapeínosen heautòn: Fil 2,8), fino a una sottomissione obbediente a Dio (eulábeia: Eb 5,7) e a una piena solidarietà con gli uomini, con noi (cf. Eb 2,17-18; 4,15). Uno svuotarsi e un umiliarsi, quelli di Gesù, per non affermare se stesso – anche se questo è ciò che gli uomini attendevano da lui come Messia –, al prezzo di mettersi in contraddizione con quanti lo seguivano (i Dodici e soprattutto Pietro: cf. Mc 8,33). Servo invece che capo, profeta invece che re, umile invece che imponente!
E in questa logica dell’incarnazione la povertà di un seme che muore senza vedere i frutti. Tutto passa attraverso l’apparente inutilità del dono! Gesù vede il rifiuto del dono di se stesso, l’apparente fallimento, vede che ciò che gli stava a cuore, la sua missione era stata rifiutata. Questo capita sovente pure al presbitero, perché il mistero della povertà di Gesù è anche una delle sue fatiche!
È su questa povertà di Gesù che si gioca la nostra fede cristiana, è in questa contemplazione che conosciamo la povertà non solo come tema etico, morale, ma altamente cristologico. È la povertà, infatti, la forma incarnationis, la forma ostensionis Christi, la forma in cui Gesù, il Figlio di Dio, ci ha salvati. Paolo dichiarerà questa povertà “parola della croce” (ho lógos ho toû stauroû: 1Cor 1,18), povertà estrema fino alla croce. Quando l’Apostolo proclama: “In mezzo a voi non ho voluto conoscere se non Gesù Cristo e questi crocifisso” (1Cor 2,2), è come se dicesse: “Ho voluto conoscere solo Gesù Cristo, povero all’estremo”.

 

1. Il messaggio di Gesù per i poveri

Tutti i vangeli contengono testimonianze sull’attenzione di Gesù per i poveri, sul suo discernimento dei poveri quali primi destinatari della buona notizia del Vangelo, ma è soprattutto Luca che ricorda frequentemente parole e azioni di Gesù verso di loro.
Nell’orizzonte della predicazione di Gesù c’è il regno di Dio che viene, cioè l’annuncio che il Signore viene a regnare dentro il cuore di chi ascolta, in e tra (entós: Lc 17,21) coloro che accolgono il giogo del regno di Dio, là dove i credenti rifiutano che altri regnino su di loro ma permettono solo a Dio di regnare, di determinare la loro vita. Se davvero c’è questa ricezione del regnare di Dio, allora i poveri (tapeinoí) sono innalzati, i potenti (dynástai) sono rovesciati, i ricchi sono rimandati a mani vuote e gli affamati sono ricolmati di beni (cf. Lc 1,52-53). Il già citato Magnificat di Maria canta questa venuta del regno di Dio, che porta ai poveri la gioia messianica e la salvezza tanto attesa.
Già il Battista, nel preparare la via alla venuta del Signore, chiedeva una conversione del cuore e della mente, capace di produrre gesti concreti di condivisione e di giustizia. Alla domanda delle folle: “Che cosa dobbiamo fare?”, la risposta era concreta, semplice: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (Lc 3,10-11). Ecco la necessaria condivisione, in vista di un’equità, di una giustizia che premetta agli uomini di sentirsi veramente solidali e fratelli.
Gesù, l’annunciatore definitivo della venuta del regno di Dio, è stato consacrato dal Padre con l’unzione dello Spirito che è sempre con lui, proprio per portare questa buona notizia ai poveri (euangelísasthai ptochoîs: Lc 4,18-19; cf. Is 61,1-2). Questi poveri, poveri di una povertà materiale, sono quelli che si trovano in una condizione più propizia per accogliere il Regno: non vivono bene, aspettano, un’altra situazione, sono in attesa di essere liberati dalla loro condizione, sono sofferenti e non soddisfatti, quindi sono più disposti ad accogliere la predicazione di Gesù. Per questo sono i destinatari primi, i clienti di diritto del Vangelo: come i malati, i sofferenti, i peccatori consapevoli di essere tali. Di conseguenza questi poveri sono anche beati: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20). La loro situazione sta per finire, secondo la volontà di Dio questa ingiustizia non deve perdurare, ed ecco che Dio interviene per innalzarli dal letame (cf. 1Sam 2,8; Sal 113,7), per dare loro la liberazione.
E se sono poveri non solo materialmente, ma anche nel “soffio”, nel cuore (ptochoì tô pneúmati: Mt 5,3), allora sono ancora più beati, perché già sanno leggere la loro situazione come preludio alla salvezza. Gesù dà ai poveri un futuro, dice che la loro indigenza non è giusta e non è l’ultima parola per loro, proclama che proprio loro sono quelli verso i quali va l’attenzione di Dio e la predicazione del Messia. E si badi bene: Gesù non promette ai poveri di diventare ricchi o di giungere a una rivalsa sui ricchi, sulla classe dominante, ma garantisce che la loro sofferenza ha un termine e che per loro è più facile desiderare e accogliere il Signore che viene con il suo Regno di giustizia e di pace.
Di conseguenza ai ricchi Gesù rivolge un “guai”: “Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione” (Lc 6,24). Con la venuta del Regno, la situazione dei ricchi sta per essere mutata: saranno spogliati, saranno abbassati, e proprio perché qui hanno vissuto senza accorgersi dei poveri, degli innocenti muti, di ogni Lazzaro che sta alla loro porta, allora saranno privi di salvezza, privi del Regno dove invece ci sono Abramo e gli autentici credenti (cf. Lc 16,19-31). Gesù dice a voce alta ai discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” (Lc 18,24 e par.). Attaccati alle ricchezze e al loro possesso, non bisognosi degli altri né dell’aiuto di Dio, garantiti dai beni nel loro vivere quotidiano, resi idolatri di Mammona, il denaro in cui si mette fiducia (Mamon, dalla radice verbale aman: cf. Mt 6,24; Lc 16,13), i ricchi non conoscono qui sulla terra la gioia del condividere, e di là non conosceranno la gioia di chi è stato “salvato” del Signore.
Dunque ptochoí e tapeinoí-‘anawim sono i destinatari primi della predicazione di Gesù e del suo Regno. Questo annuncio di Gesù comporta però che chi accoglie il Regno e il suo giogo sulle proprie spalle faccia un cammino di conversione, di ritorno a Dio, di conformazione a ciò che Dio vuole, alla sua volontà. E Dio, in vista dell’equità e della giustizia che instaurano la fraternità, vuole la condivisione. Se la vocazione degli uomini è alla comunione, occorre che s’instauri anche la condivisione di ciò che si possiede, dei beni e dei doni che uno ha. Per questo alcuni che seguono Gesù abbandonano i beni, vi rinunciano (cf. Lc 5,1; 18,28); ad altri è richiesto di venderli e di darli ai poveri (cf. Lc 18,22); a Zaccheo è chiesto un segno di mutamento del comportamento, per cui egli dà la metà dei suoi beni ai poveri e restituisce il quadruplo a quanti aveva derubato (cf. Lc 19,8). Gesù chiede cioè che tra i discepoli che lo seguono s’instauri una dinamica di condivisione, perché il Regno e regno di giustizia e di pace, è fraternità dei figli di Dio e dei fratelli di Gesù.
Dice bene Paolo, interpretando questa esigenza: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Per questo occorre realizzare la condivisione: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia equità” (ex isótetos: 2Cor 8,13). Uguaglianza, equità nella comunità cristiana sono segni dell’intenzione della fraternità, della ricerca della comunione, e per questo è assolutamente necessaria questa opzione di condivisione di ciò che si possiede, perché i beni sono destinati a tutti, perché non ci dovrebbe essere nessun povero nella comunità del Signore (cf. At 4,34; Dt 15,4), perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Non c’è dunque demonizzazione dei beni, ma diffidenza verso il loro accumulo, perché i beni schiavizzano, le ricchezze alienano e asserviscono, l’accumulo di ricchezze intontisce spiritualmente e rende duro il cuore (si vedano le figure del ricco che ha accumulato provviste abbondanti nei suoi magazzini e del cosiddetto “ricco epulone”: cf. Lc 12,16-21; 16,19-31).
Sigillo di tutta la predicazione di Gesù riguardo ai poveri e ai bisognosi è la sua profezia del giudizio (cf. Mt 25,31-46). Il giudizio alla fine della storia, del mondo, in realtà si consuma nella nostra vita ogni giorno, oggi! Allora ci sarà solo l’epifania di ciò che abbiamo fatto o non fatto nella nostra vita di ogni giorno: conosceremo che aver dato da mangiare a un affamato, vestito un ignudo, visitato un carcerato, avuto cura di malato, accolto uno straniero, è aver fatto ciò che il Signore desidera, perché lui ama noi uomini come se stesso. Ciò che abbiamo fatto o non fatto a un uomo l’abbiamo fatto o non fatto a Cristo. In quel giorno vedremo i volti dei poveri e dei bisognosi nel volto di Cristo che ci chiama al Regno o ci esclude da esso: ma siamo stati noi, qui e ora, nella nostra vita quotidiana, a decidere il nostro destino ultimo, il nostro esito eterno.

 

3. La povertà del presbitero: indicazioni
Se il ministero presbiterale è partecipazione alla missione di Cristo, allora la relazione con Cristo non può che essere al centro della persona del presbitero. Contro ogni deriva funzionalista o pastoralista del ministero, la chiamata di Gesù stabilisce gli apostoli anzitutto nella relazione stabile con lui: “Gesù ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,15). La missione dice anzitutto relazione con chi invia, prima ancora che con i destinatari della missione. Dimenticare questo elemento fondante il ministero apostolico nel NT significa smarrirsi poi, nella pratica del ministero presbiterale, in derive in cui il ruolo prevale sulla relazione, il fare sull’essere, l’attività sulla vita nello Spirito.
La povertà del presbitero non è pertanto semplicemente volta a rendere il presbitero più disponibile verso i poveri e i deboli, ma ha a che fare con la sua qualità umana, con la strutturazione della sua umanità, con l’edificazione della sua persona in relazione a Cristo. E ovviamente, in relazione alle persone della sua comunità e a chiunque egli incontri.
Insomma, sul problema della povertà si gioca la qualità dell’umanità e della fede del presbitero. La povertà chiede di entrare nelle case, di andare nelle periferie: occorre essere poveri per essere accolti senza paura, come bisognosi. I presbiteri andando nelle periferie diventano ospiti che offrono fraternità, offrono il mistero del Regno messo nelle loro mani: “A voi è stato consegnato il mistero del regno di Dio” (Mc 4,11).
La povertà che il presbitero è chiamato a vivere è fragile. Fragile perché il contesto in cui vive qui in Italia è quello di un paese ricco, di una chiesa ricca e che ha abbondanti mezzi di sostentamento. Fragile perché non essendo la povertà presbiterale connessa a un voto come nella vita religiosa, essa è sostanzialmente lasciata alla buona volontà dell’individuo. “Anche per un prete non è affatto facile essere povero. Occorre scegliere di essere povero”. (1) Dunque la povertà è anzitutto una domanda prima che una risposta. Una domanda per la chiesa, per ogni presbiterio diocesano e per ogni singolo presbitero. È una domanda circa il modo della presenza della chiesa (e dei presbiteri) nel mondo, tra gli uomini. Di fronte al rigore delle richieste di Gesù circa la missione degli apostoli che portava Gerolamo ad affermare che essi sono inviati “quasi nudi” e che sarebbe più rapido dire quello che essi possono portare con sé piuttosto che quello che non possono portare, ci si deve porre la domanda: come annunciare l’evangelo, che è destinato ai poveri, che è buona novella per i poveri, con mezzi potenti, con dispiego di ricchezza, con sfoggio di forza? Se è vero che il mezzo è il messaggio, la forma è già il contenuto, come scindere l’evangelo dalle modalità del suo annuncio e dai soggetti che lo annunciano? Non siamo qui di fronte a una mancanza di fede delle chiese oggi e forse a uno dei fattori dell’inefficacia e della sterilità degli sforzi di evangelizzazione? Le indicazioni di Gesù sulla missione (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16) significano che l’inviato evangelizza con la sua stessa presenza, con la sua stessa persona, con il suo modo di vivere.
Ma elenchiamo alcuni aspetti della povertà presbiterale:
Povertà non va confusa con sciatteria, trasandatezza nel vestire, mancanza di igiene personale, assenza di cura di sé, di decoro del proprio alloggio, di qualità del cibo quotidiano. Né va confusa con ignoranza e indifferenza alla vita interiore e intellettuale. La vita di Gesù ha indicato la via verso una sobrietà che fa spazio alla bellezza, alle relazioni gratuite, alla capacità di contemplazione.
La trasparenza dei conti, la pubblicità dei bilanci in una parrocchia, la correttezza amministrativa, la regolarità fiscale, la destinazione di una somma per poveri o chiese povere, sono alcuni elementi che concorrono a quella trasparenza che lascia al presbitero la limpidezza di coscienza e impedisce la diffidenza o le accuse, ben sapendo che sul tema del rapporto con il denaro la chiesa gioca molta della sua credibilità presso le persone. Il presbitero deve misurarsi su almeno tre fronti: l’uso dei suoi soldi personali, dei soldi della comunità parrocchiale, dei soldi erogati dallo Stato e dalla Chiesa. Paolo, nel suo testamento spirituale rivolto agli anziani di Efeso, afferma con fierezza: “Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,33-35).
La povertà è strettamente legata alla fraternità e alla vita di comunione. Gesù inviò i suoi discepoli in condizioni di estrema precarietà, proibendo loro di prendere oggi quello che poteva servire loro domani, ma li mandò “due a due”, essendo evidente che la loro stessa fraternità, la loro carità è il primo annuncio del regno di Dio. In casi di parrocchie in cui vi siano più preti, certamente una cassa comune può essere una forma di condivisione e di attuazione di un uso evangelico dei beni. La capacità di accoglienza, di fare spazio a poveri, di dare ospitalità a chi ne ha bisogno, di dare tempo e ascolto a chi lo mendica, è possibile a chi è povero e vive una concreta spogliazione.
Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis al n. 17 (che si occupa della povertà volontaria e dell’atteggiamento verso i beni terreni) esorta così i presbiteri: “Non trattino l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne derivi per aumentare le sostanze della propria famiglia. I sacerdoti, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio”. L’avidità, l’avarizia, la brama di possedere e di accumulare beni e denaro può insinuarsi nella vita di un presbitero: e più l’età avanza più la tentazione può farsi strada. La paura del futuro, il timore derivante dal pensiero della vecchiaia, dell’incertezza di ciò che il domani può riservare, di eventuali malattie e ricoveri, l’angoscia di dover dipendere da altri, può ingenerare una brama di accumulo che va oltre la buona previdenza, e diventa una maniera di scongiurare il futuro e la morte. Le condizioni psicologiche che ingenerano l’avarizia sono ben espresse da Evagrio Pontico: “L’avarizia lascia intravedere una vecchiaia lunga e la debolezza delle braccia nel compiere lavori faticosi e la possibilità della fame e di future malattie e i dolori della povertà, e lascia pure prevedere quanto sarà avvilente ricevere dagli altri quello che dovrà servire alle proprie necessità” (Praktikòs 9). Ovviamente, solo un’adeguata qualità relazionale e fraterna della vita può aiutare a far fronte a tali giustificati timori.
Scindere in modo assoluto l’amministrazione dei sacramenti e le celebrazioni liturgiche, che tutte annunciano la gratuità di Dio in Gesù Cristo, dalla richiesta di pagamento è condizione essenziale per la verità di ciò che si celebra e per la credibilità stessa del celebrante. Lì emerge come la gratuità del ministero (“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”: Mt 10,8) non sia fatto semplicemente personale, ma ecclesiale. Nella sessione del Concilio di Trento (traslato a Bologna) del 1547 circa la riforma dei sacramenti, si discusse sulla liceità o meno del petere e dell’accipere: si poteva chiedere o anche solo ricevere qualche cosa in occasione dell’amministrazione dei sacramenti? Se nessuno sosteneva la liceità del petere, le discussioni sull’accipere furono sottili, ma va ricordata la posizione di Seripando che voleva tagliare alla radice  il problema definendo “eretico e sacrilego” ogni tintinnio di monete intorno all’altare e va ricordata l’espressione intrisa di zelo evangelico che affermava che ormai “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di oro e di argento”. Di tutto questo non restò praticamente nulla al termine del Concilio.
A ogni presbitero resta oggi l’esempio fondante di Cristo nel suo spogliarsi per incontrare l’uomo e rivelare il volto di Dio e resta l’esempio dell’Apostolo (1Cor 4,16). Resta soprattutto un’esigenza evangelica ineludibile che chiede al presbitero, ma anche alle chiese locali e ai vescovi, di divenire realtà. E che sollecita la creatività e l’intelligenza dei singoli e delle comunità. Ne va della credibilità della chiesa.

 

Conclusione
Tutto ciò che è scritto e testimoniato dai vangeli su Gesù, sulle sue parole e sulla sua vita, è stato scritto per chi vuole seguire Gesù, per la comunità di Gesù, la chiesa. Discepoli e comunità cristiana sono chiamati a essere cristiani, cioè a conformare la loro vita a quella di Gesù, il loro stile a quello di Gesù.
Per Gesù la povertà è stata un tratto essenziale della sua missione: quello della povertà è dunque un tema cristologico decisivo, e innanzitutto sulla povertà la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore. Per questo troviamo nei vangeli parole chiare e abbondanti di Gesù sullo stile del discepolo-inviato-apostolo, stile di povertà, stile che deve mostrare la debolezza dell’evangelizzatore, la gratuità e il disinteresse personale del predicatore, la semplicità e la libertà di chi annuncia la venuta del regno di Dio (cf. Lc 9,1-6 e par.; 10,1-20). Le direttive sulla missione sono proprio quelle che sono state evase, tradite, vorrei dire anche pervertite ipocritamente da noi cristiani, soprattutto da chi aveva la missione di evangelizzare. Solo chi è libero e disinteressato al denaro e ai beni mostra che è Dio a regnare su di lui, mostra di non avere interessi personali nel suo ministero, mostra la gratuità della buona notizia indirizzata a tutti, ma con l’opzione preferenziale per i poveri.
Papa Giovanni per primo nei nostri giorni, durante il concilio, indicò profeticamente alla chiesa che questa era l’ora dei poveri, della chiesa dei poveri, e il concilio ha tentato qua e là di tradurre questa intenzione, riprendendo parole del Vangelo e dei padri della chiesa come determinanti per il nostro oggi. Spetta a noi di non dimenticare questo messaggio e di ricordare che la chiesa nata dalla Pentecoste ha innanzitutto cercato (nella chiesa si cerca e si tenta sempre, non si realizza mai!) di essere assemblea del Signore in cui Dio regna e il suo Regno significa anche condivisione, dinamica di comunione tra i cristiani. La chiesa è sottomessa alla logica della koinonía, e per questo ogni giorno decide di vedere nel povero il Cristo, decide di instaurare la giustizia e l’equità, mette in comune ciò che ha, imparando la forma vera della koinonía dalla celebrazione eucaristica.
La celebrazione dell’eucaristia è davvero il magistero primo e decisivo per la koinonía ecclesiale: in essa c’è anche il mistero della povertà e la presenza dei poveri che il Signore predilige. Non si dimentichino né il messaggio degli Atti degli apostoli né quello dell’Apostolo Paolo: se i cristiani non sanno praticare la condivisione (cf. At 2,42-47; 4,32-35), allora “non riconoscono il corpo del Signore, e così mangiano e bevono la propria condanna” (cf. 1Cor 11,29) e “gettano il disprezzo sulla chiesa di Dio, facendo vergognare il povero” (cf. 1Cor 11,22), proprio mentre praticano il sacramento che dovrebbe ispirare amore, condivisione, giustizia, equità, in vista della vita piena, dello shalom…
A nessuno, e neppure alla chiesa, è concesso di essere tranquillo a proposito della povertà, perché – lo ricordo un’ultima volta – si tratta di un tema cristologico prima di essere un tema di etica cristiana. Proprio per questo motivo, mi piace concludere citando un passo della Lumen gentium che purtroppo negli ultimi decenni è stato dimenticato: “Come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza” (§ 8).

Enzo Bianchi
Priore di Bose

(1) F. Brovelli, «Voi che mi avete seguito». Ministero e sequela, Ancora, Milano 1998, p. 44.