Brescia, Chiesa cattedrale, 30 marzo 2012
Introduzione
Ringrazio di cuore la chiesa che è in Brescia e il suo vescovo Luciano Monari per l’invito rivoltomi. Vorrei inoltre esprimere la mia riconoscenza per mons. Ivo Panteghini e la Compagnia dei Custodi delle S.S. Croci, presso la quale ritorno volentieri ogni volta che mi è possibile.
Il tema che è stato assegnato alla mia riflessione è il capitolo 22 della Genesi, che vi presenterò in una traduzione un po’ più fedele al testo originale. La tradizione cristiana definisce questa pagina «sacrificio di Isacco»; la tradizione ebraica – a partire dal v. 9: «Abramo … legò (verbo ‘aqad) il figlio Isacco» – ne parla invece come della «legatura (‘aqedah) di Isacco»: in conformità alla lettera del testo biblico, infatti, Isacco fu legato in preparazione al sacrificio, ma poi non realmente sacrificato. Nella dialettica tra questi due possibili titoli riassuntivi del testo sta il senso profondo dell’itinerario che percorreremo insieme.
La narrazione è aperta da una sorta di titolo, un’enigmatica sintesi dell’intero brano: «Dio mise alla prova Abramo» (Gen 22,1), versetto che rimane in sospeso fino all’affermazione dell’angelo: «Ora so che tu temi Dio» (Gen 22,12). Tra queste due estremità si svolge un racconto duro, difficile, forse anche scandaloso, che non si lascia penetrare facilmente. Si tratta di una pagina che necessita innanzitutto di essere compresa e commentata alla lettera. Solo successivamente sarà possibile discutere alcune tra le interpretazioni di Genesi 22, dando particolare rilievo a quelle sorte in ambito cristiano. Tutto ciò senza dimenticare che questo testo, quanto più viene letto e spiegato, tanto più suscita interrogativi e pone in questione la nostra fede.
• Commento letterale
a) Il comando di Dio
Nel tempo intercorso dal primo incontro con Dio (cf. Gen 12,1-3) Abramo ha approfondito la propria fede, ha imparato ad abbandonarsi totalmente a colui che sempre porta a compimento le sue promesse. Egli è ormai un credente maturo ed è giunto alla pienezza dei suoi giorni avendo svolto in piena obbedienza il mandato affidatogli da Dio. Ed ecco che, quando Isacco è adulto, arriva per Abramo l’ora di una nuova conoscenza di Dio. Dopo la chiamata e la promessa sigillata dall’alleanza, dopo la promessa confermata e realizzata con la nascita di Isacco, ora la promessa passa al vaglio della prova suprema.
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico, che tu ami, Isacco, va’ (lekh lekha) nel territorio di Moria e offrilo in sacrificio su un monte che io ti dirò» (Gen 22,1-2).
Perché Dio mette alla prova Abramo? Una parte della tradizione rabbinica risponde che questa prova è opera di Satana, il quale convince Dio ad agire in tal modo per vedere se Abramo gli rimarrà fedele anche in questo frangente, non solo nella buona sorte che fino a quel momento l’ha accompagnato. Non convince più di questa ingenua spiegazione neppure quella di alcuni padri della chiesa, secondo i quali Dio intenderebbe in tal modo accrescere la fama di Abramo agli occhi dei secoli futuri (così, per es., Agostino, La città di Dio XVI,32,1). L’enigma resta e richiede una lettura più approfondita per essere colto come mistero attinente allo spazio della fede.
Come agli inizi della storia di Abramo, anche qui non c’è nessuna apparizione di Dio; solo una parola (cf. Gen 12,1; 13,14), o meglio una chiamata ripetuta due volte, a indicare una rivelazione importante, decisiva: «Abramo! Abramo!». E subito Abramo risponde: «Eccomi!» (hinneni), parola straordinaria che riassume in sé la disponibilità piena a compiere la volontà di Dio (cf. Lc 1,38). E la voce di Dio gli chiede: «Lekh lekha! Vattene! Va’ verso te stesso!». Si tratta delle medesime parole rivolte ad Abramo in Gen 12,1, con un parallelismo che si spinge anche oltre e comprende l’indicazione di un luogo: là una terra, qui un monte nel territorio di Moria. Insomma, Abramo è chiamato a un nuovo inizio, a ricominciare da capo il suo viaggio, ad andare alle radici della sua vocazione per ripetere puntualmente la sua obbedienza a Dio…
Abramo sa bene che avere obbedito al Signore ha significato adempiere la propria vocazione, ma ora è chiamato a un nuovo cammino, ancora più oscuro di quello iniziale. Qui infatti non si tratta più soltanto di partire rinunciando ai legami con la famiglia d’origine, ma di offrire in sacrificio il figlio trentasettenne (cf. Targum Jerushalmi a Gen 22,1); il figlio della promessa di Dio, una promessa la cui realizzazione è stata progressivamente differita (cf. Gen 15,2-5; 17,15-21; 18,9-15); il figlio da lui tanto amato, come dimostrano le insistite annotazioni del testo: «tuo figlio, il tuo unico, che tu ami, Isacco». Quest’uomo, che ha saputo rinunciare ai legami con il suo passato, saprà ora rinunciare anche all’intenso legame con il suo futuro, il figlio Isacco? Non si può dimenticare che Isacco è un figlio totalmente donato da Dio, il quale «ha visitato Sara» (cf. Gen 21,1), compiendo ciò che umanamente sarebbe stato impossibile per i due coniugi anziani e sterili; da lui dipende la discendenza di Abramo, il suo futuro…
b) L’esecuzione dell’ordine
Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per il sacrificio e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva detto. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna del sacrificio e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi camminarono insieme tutti e due uniti. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse:
«Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per il sacrificio?». Abramo rispose: «Dio vedrà l’agnello per il sacrificio, figlio mio!». Camminarono insieme tutti e due uniti; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio (Gen 22,3-10).
Dopo aver ascoltato il comando di Dio, Abramo non risponde nulla; tace, immerso nel silenzio assordante che avvolge le sue azioni: egli si alza di buon mattino, mette la sella all’asino, prende con sé due servi e Isacco, spacca la legna per il sacrificio e si mette in viaggio verso il territorio di Moria. Non si può dimenticare che già la Bibbia identificherà il territorio di Moria con la collina sulla quale verrà edificato il tempio di Gerusalemme (cf. 2Cr 3,1); e soprattutto che la tradizione cristiana, a partire da Origene (Commento a Matteo 126), vi ha visto il monte della crocifissione di Gesù.
Il testo non ci presenta nessuna parola dei protagonisti, né fa alcun accenno ai loro sentimenti. Tutto però è descritto con estrema precisione, fino ai particolari più banali, quasi al rallentatore: «il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo»; segue immediatamente l’ordine impartito ai servi di fermarsi, per lasciar proseguire lui e il figlio. L’incontro che sta per accadere dovrà svolgersi solo tra Abramo, Isacco e Dio, senza altri testimoni, nemmeno l’asino: nessuno deve vedere, là dove «Dio vede» (cf. Gen 22,8.14)… Nell’ultima parte della salita al monte, mentre Isacco appare «come uno che porta sulle spalle la croce» (Genesi Rabbah 56,3; cf. Origene, Omelie sulla Genesi VIII,6), padre e figlio «camminano insieme tutti e due uniti» – espressione che ritorna due volte nello spazio di tre versetti –, pienamente concordi nell’andare verso quel sacrificio che li separerà per sempre. E qui avviene un breve colloquio tra padre e figlio, un dialogo scarno, essenziale, in cui Abramo pronuncia nuovamente il suo: «Eccomi!». Tutto sembra concentrarsi sulla domanda decisiva formulata da Isacco: «Dov’è l’agnello per il sacrificio?», alla quale Abramo replica: «Dio vedrà»: risposta enigmatica o parola che testimonia una comprensione più profonda di ciò che sta per accadere?
Nel silenzio che ritorna ad avvolgere la scena, i due giungono al luogo indicato e gli eventi si susseguono a un ritmo incalzante: Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega Isacco e lo depone sull’altare, sopra la legna. Tutto è pronto per il sacrificio, la tensione è alta, quasi palpabile; eppure colpisce l’estrema concordia dei due protagonisti. Isacco si mostra pienamente obbediente, non oppone alcuna resistenza, non si preoccupa di sé, vive quella che potrebbe essere definita attiva passività; Abramo compie i gesti che sanciscono la sua rinuncia al dono di Dio, è ormai disposto a rendergli puntualmente il figlio della sua grazia. Abramo, che sentiva il figlio così legato alla sua persona, ora sull’altare lo lega a Dio e lo scioglie in qualche modo da se stesso…
«Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio».
c) L’intervento di Dio
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in sacrificio invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: «Il Signore vede», perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore vede» (Gen 22,11-14).
Abramo si è mostrato obbediente fino alla fine, ed ecco che il messaggero di Dio interviene e sospende l’atto del sacrificio: di nuovo una duplice chiamata, di nuovo il risoluto: «Eccomi!». L’angelo ferma il braccio di Abramo attraverso una parola: «Non stendere la mano contro il ragazzo»; Isacco è ormai divenuto «il ragazzo», il suo essere figlio può solo essere detto in relazione a Dio! Abramo si rivela pronto ad ascoltare Dio anche in quel momento così intenso; dal suo cuore capace di ascolto nasce la prontezza degli occhi: a poca distanza vi è un ariete impigliato con le corna in un cespuglio, lui può essere offerto in sacrificio. Il narratore commenta: «Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore vede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore vede”». Il Signore vede il cuore di Abramo, vede il cuore di Isacco, e prontamente interviene, «si fa vedere» (altra traduzione possibile secondo una diversa vocalizzazione del testo masoretico).
Il sacrificio è avvenuto, ma Isacco è rimasto in vita, e Abramo ritrova il figlio in un nuovo modo, quale figlio di Dio; ecco perché al termine del racconto si annota che «Abramo tornò dai suoi servi» (Gen 22,19), solo, senza Isacco. Certamente l’esperienza del monte Moria ha posto una distanza tra i due, li ha separati, li ha distinti. Da quel momento Isacco è un figlio che può diventare padre, e Abramo un padre che riconosce di dover nuovamente riporre tutta la sua speranza solo in Dio, del quale lui stesso è figlio: il Dio Padre di tutti, il «Padre nostro» (Mt 6,9), appunto.
d) La promessa
Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla spiaggia del mare … Saranno benedette per la tua discendenza tutte le genti della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,15-18).
Il rinnovamento della promessa rivolta da Dio ad Abramo a favore degli uomini tutti si fonda su una semplice motivazione: «Tu, Abramo, hai obbedito alla mia voce», così come poco prima l’angelo gli aveva detto: «Ora so che tu temi Dio». Ma Dio aveva forse bisogno di quest’ultima prova? Non conosceva già in anticipo l’obbedienza di Abramo? Anche qui si sprecano le spiegazioni apologetiche, tra cui mette conto citare le due più nobili: «”Ora so”: cioè “ora io rendo noto a tutti che tu mi ami”» (Genesi Rabbah 56,7); «Già lo sapeva Dio, e non gli era nascosto, poiché “egli conosce tutte le cose prima che accadano” (Dn 13,42). Ma ciò è scritto per te» (Origene, Omelie sulla Genesi VIII,8), cioè per il lettore.
No, non è Dio che lo ha messo alla prova; piuttosto, si può dire che tramite l’evento dell’‘aqedah, della legatura, Abramo ha rinnovato la propria conoscenza di Dio, ha imparato a conoscere Dio in modo nuovo. Prima egli contava su Dio come partner affidabile; dopo questo episodio sperimenta la presenza di un Dio nel quale deve credere anche nella piena oscurità, anche quando di lui non capisce nulla: «dal Dio su cui può contare, di cui può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui» (Carlo Maria Martini).
2. Alcune piste di interpretazione
Dopo questa analisi letterale del testo, vorrei ora presentare quelle che mi paiono le più significative interpretazioni di Gen 22, tra le innumerevoli avanzate nel corso dei secoli (tralascio per ragioni di tempo quella più tradizionale e più semplice da un punto di vista storico, secondo cui questo brano vieta la pratica dei sacrifici umani e fonda quella dei sacrifici animali).
a) La fede e l’obbedienza di Abramo
Secondo il Nuovo Testamento questa pagina di Genesi evidenzia innanzitutto la fede e l’obbedienza di Abramo, colui che aderisce a Dio senza vacillare. Si legge nella Lettera agli Ebrei:
Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco. Proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: «In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome» (Gen 21,12 LXX). Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo recuperò e fu come un simbolo (Eb 11,17-19; cf. Gc 2,21-23).
Addirittura tra le righe di questo passo traspare che Abramo avrebbe effettivamente sacrificato Isacco – dato su cui torneremo tra breve – grazie alla sua fede nella resurrezione, l’opera per eccellenza di Dio… Abramo è colui che supera la prova radicale, il caso limite, quello in cui l’uomo mostra chi egli è in profondità; Abramo vede scossa alle fondamenta la propria fiducia in Dio, attraversa la notte in cui Dio sembra smentire completamente le sue promesse. In questo frangente egli vive certamente la confusione, cioè lo stato angosciato di chi non comprende più se Dio è con lui, lo smarrimento di chi perde la capacità di dare un senso alla propria esistenza, quella situazione di fronte alla quale il salmista può solo invocare: «In te mi rifugio, Signore, che io non resti confuso per sempre!» (Sal 71,1).
Ebbene, posto davanti a questa situazione fallimentare, mentre tutto sembra andare in frantumi e il suo cuore è un «cuore spezzato» (cor contritum: Sal 50 [51],19), Abramo continua ad avere fede in Dio, «sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Anche se i tratti del volto di Dio a lui noti fino a quel momento sembrano dissolversi, egli persevera nella sua obbedienza fedele a quello stesso Dio, «rimane saldo come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27), a dispetto di una situazione visibile che in quel frangente si manifesta unicamente come incomprensibile contraddizione e dolorosa smentita. Abramo attraversa tutto questo eppure rimane saldo: da quel giorno si potrà dire a pieno titolo che «figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» (Gal 3,7).
b) Gesù Cristo, nuovo Isacco
Certamente la lettura cristiana più attestata di Gen 22 è quella che potremmo definire tipologica: Gesù Cristo è il nuovo Isacco, ed è precisamente in questo senso che la chiesa propone la lettura liturgica di Gen 22,1-18 al cuore della veglia pasquale.
Nel Nuovo Testamento diverse tradizioni attestano questa interpretazione. Quella probabilmente più antica si trova nella Lettera ai Romani, che allude in questo modo a Gen 22: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-32). Un altro interessante richiamo al nostro brano si ha nella voce di Dio che risuona su Gesù in due momenti decisivi per la sua autocoscienza, il battesimo e la trasfigurazione:
Tu sei il Figlio mio, l’amato (cf. Gen 22,2); in te ho posto la mia gioia (Mc 1,11 e par.).
Questi è il Figlio mio, l’amato (cf. Gen 22,2); ascoltatelo! (Mc 9,7; Mt 17,5).
Ma come sempre colui che nel Nuovo Testamento ci presenta una riflessione teologica più ricca e meditata è l’autore del quarto vangelo. Ciò vale anche in riferimento alla relazione tra Gesù e Isacco: due sono i passi interessanti a tale proposito. In primo luogo un’affermazione presente in Gv 3. Subito dopo il dialogo tra Nicodemo e Gesù, nel quale quest’ultimo ha affermato: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15), l’evangelista commenta per noi lettori questa rivelazione di Gesù. Egli sente il bisogno di interrompere il racconto per spiegare l’annuncio di Gesù, e lo fa con parole che rappresentano una sorta di vangelo nel vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). L’innalzamento di Gesù, il suo mistero pasquale, avviene perché «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»: come Abramo non ha esitato a offrire al Signore il suo figlio unico, l’amato, Isacco, così Dio dona a noi uomini il suo Figlio unico e amatissimo, affinché attraverso di lui possiamo avere la vita in abbondanza (cf. Gv 10,10)…
Il secondo brano giovanneo che ci interessa si trova all’altro estremo del vangelo:
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse tra le sue cose più care (Gv 19,25-27).
È un testo straordinario, inesauribile, che tante volte ho commentato durante la liturgia dell’ora nona del venerdì santo. Qui evidenzio solo un dato, che fa compiere un passo ulteriore rispetto ai brani neotestamentari fin qui considerati. Queste parole che Gesù, il Figlio amato, pronuncia sulla croce, consentono di accostare sua madre ad Abramo nel momento del sacrificio sul monte Moria. Come Isacco – secondo una tradizione giudaica che vedremo tra breve – implora il padre di legarlo con cura affinché il sacrificio sia perfetto, così Gesù domanda a sua madre di rendere piena la distanza tra sé e lei, affinché il suo sacrificio di amore sia più libero: per questo la chiama «donna»! Di conseguenza, come Abramo grazie alla sua obbedienza diventa padre di una moltitudine innumerevole di figli, padre dei credenti (cf. Rm 4,16-18), così Maria diventa qui madre del discepolo amato, che sintetizza in sé tutti i discepoli di Gesù: diventa anch’essa madre dei credenti. In tal modo le parole di Gesù, che creano ciò che dicono, fanno di sua madre la madre di tutti i discepoli, fondano la maternità della chiesa: e questo proprio nell’ora in cui Gesù si sottrae a lei per fare ritorno al Padre che è nei cieli…
Non posso infine non citare due dei tanti passi patristici che attestano la lettura tipologica tradizionale di Gen 22:
È detto a proposito del Signore nostro Gesù Cristo: «fu legato come un ariete» (cf. Gen 22,13), e anche: «fu tosato come una pecora, condotto al macello come un agnello» (cf. Is 53,7). Sì, egli fu crocifisso come un agnello e portò il legno sulle sue spalle, condotto per essere immolato come Isacco da suo padre (cf. Gen 22,6) … Isacco era figura di colui che un giorno avrebbe sofferto, il Cristo (Melitone di Sardi, Frammenti 9).
Il Signore ha detto: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Penso che qui si riferisca al giorno della croce, prefigurato dal sacrificio dell’ariete e di Isacco (Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni 55,2).
Senza dimenticare il particolare che gli studi esegetici contemporanei hanno ormai mostrato con un buon grado di sicurezza: Gesù avrebbe subito la crocifissione e la morte proprio a trentasette anni, l’età di Isacco al momento della «legatura»…
c) «Papà, dove stiamo andando, noi soli?»
Come ultima interpretazione di Gen 22 vorrei citare quella contenuta nel Midrash wa-josha‘ (§ 1), uno splendido testo della tradizione giudaica, a tratti persino commovente, che integra con grande sapienza i silenzi del racconto biblico.
Sta scritto: «Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco» (Gen 22,3). Disse Isacco a suo padre: «Papà, dove stiamo andando, noi soli?». Gli disse: «Figlio mio, fin là, a un posto vicino». Sta scritto: «Abramo prese la legna del sacrificio e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono insieme tutti e due uniti» (Gen 22,6) … Subito cadde un terrore grande su Isacco, perché non vedeva nulla da offrire in sacrificio in mano a suo padre. E sta scritto: «Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per il sacrificio?”» (Gen 22,7). Subito Isacco tremò e si scossero le sue membra, perché comprese il pensiero di suo padre; e non riusciva a parlare, tuttavia si fece forza, e disse a suo padre. «Se è vero che il Santo mi ha scelto, allora la mia vita è donata a lui». E Isacco accettò con pace la sua morte, per adempiere il precetto del suo Creatore. Disse Abramo: «Figlio mio, io so che non ti opponi all’ordine del tuo Creatore e al mio ordine». Rispose Isacco a suo padre: «Padre mio, fai presto! Compi la volontà del tuo Creatore, ed egli compirà la tua volontà».
Dopo aver superato anche le insidie di Satana, il quale cerca di ostacolare il loro cammino suscitando dubbi su ciò che stanno per compiere, Abramo e Isacco
«arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna» (Gen 22,9). Abramo costruiva l’altare e Isacco gli porgeva la legna e le pietre: Abramo era come uno che costruisce il talamo per suo figlio, e Isacco era come uno che si prepara per il letto nuziale, e lo fa con gioia. Disse Isacco: «Papà, fatti forza! Snuda il tuo braccio, e lega bene le mie mani e i miei piedi, perché io sono un giovane di trentasette anni, e tu sei vecchio: che quando vedrò il coltello nella tua mano non mi agiti per paura e non ti colpisca, che l’anima mia non si ribelli e io mi macchi di colpa dibattendomi, rendendomi così indegno del sacrificio. Ti prego dunque, papà, fai presto! Compi la volontà del tuo Creatore, non tardare!» … E subito Abramo dispose la legna e legò Isacco sull’altare, sopra la legna; fece forte il suo braccio, si rimboccò le vesti, e puntò su di lui le ginocchia con grande forza. E il Santo vide come fosse uguale il cuore di entrambi. E sgorgarono lacrime da Abramo e caddero su Isacco, e da Isacco caddero sulla legna, che subito fu inondata dalle lacrime. «Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio» (Gen 22,10). Allora il Signore disse agli angeli del servizio: «Avete visto Abramo mio amato, come ha confessato l’unicità del mio Nome nel mondo? Se avessi ascoltato voi, quando, alla creazione del mondo, diceste: “Che cos’è l’uomo che tu lo ricordi, l’essere umano perché tu lo visiti” (Sal 8,5), chi avrebbe confessato l’unicità del mio Nome in questo mondo, come Abramo?» … E piansero gli angeli del servizio, e caddero le loro lacrime sul coltello, tanto che fu fermato e non ebbe forza sul collo di Isacco; ma subito la vita lo abbandonò. Allora il Santo disse a Michele: «Perché stai fermo? Non lasciare che sia ucciso!». E subito Michele chiamò Abramo e disse: «Abramo, Abramo! Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!» (Gen 22,11-12) … Subito Abramo desistette, e la vita di Isacco ritornò in lui; egli stette ritto sui suoi piedi e pronunciò questa benedizione: «Benedetto sei tu, Signore, che dai la vita ai morti!».
Oltre che per la grande qualità poetica, questo testo si segnala anche per il particolare della resurrezione di Isacco, che costituisce un chiaro parallelo a quanto espresso dalla Lettera agli Ebrei. È in questo stesso solco che si colloca anche la connessione tra l’‘aqedah e la festa di Pasqua contenuta in alcune opere della tradizione giudaica, probabilmente influenzate dalla riflessione cristiane: «Vedendo il sangue dell’agnello pasquale (cf. Es 12,13.23) – dice il Signore – io vedrò quello di Isacco» (Mekilta de-Rabbi Jishma‘el 8; si veda anche il «Poema delle quattro notti» contenuto in Targum Neofiti a Es 12,42: la seconda notte è quella dell’‘aqedah).
Questo midrash contiene però a mio avviso un insegnamento ancora più importante. Fino a questo momento Dio aveva stretto alleanza con il solo Abramo, ma nella relazione tra i due ora entra anche Isacco. Abramo non cammina più solo con Dio (cf. Gen 17,1), ma deve imparare a stare al passo di Isacco, così come Isacco deve fare nei confronti del padre: «camminano insieme tutti e due uniti» (cf. Gen 22,6.8), insieme portano gli strumenti per il sacrificio, insieme si preparano a compierlo… La loro reciproca obbedienza, il loro com-patire narra un riflesso del volto misericordioso di Dio: Dio cammina con l’uomo, se questi si dispone a camminare con l’altro, a essere letteralmente con-corde, animato cioè da un medesimo sentire, nella quotidiana sottomissione reciproca.
Conclusione
«L’epifania del volto è etica»: queste parole di Emmanuel Lévinas riassumono bene il senso profondo del testo su cui abbiamo meditato. Sul volto di Isacco, Abramo scorge la verità del comandamento: «Non uccidere!» (Es 20,13; Dt 5,17), e la sua mano già tesa nell’atto sacrificale è come paralizzata:
«Abramo stese la mano» (Gen 22,10). Stendeva la mano per prendere il coltello e dai suoi occhi scendevano lacrime, e le lacrime provenienti dalla compassione paterna cadevano sugli occhi di Isacco (Genesi Rabbah 56,8).
Abramo si commuove e le sue lacrime si uniscono a quelle di Isacco: quando si soffre insieme, si comprende che ogni violenza è radicalmente impossibile; anzi, si giunge a comprendere che Dio non può volere la morte né alcun sacrificio violento, ma solo «la vita in abbondanza» (Gv 10,10), per tutti gli uomini. E questa rinnovata conoscenza di Dio si accompagna a un’altra, più profonda conoscenza di sé…
In questo senso la prova di Abramo – una prova non voluta da Dio ma fornitagli dalla storia, perché è la nostra povera e travagliata vita umana che ci può condurre in situazioni di prova – è quella in cui ogni uomo può imbattersi: prima o poi il credente sperimenta che occorre rinunciare a ciò che ha di più caro e su cui ha fondato la propria vita, per offrirlo puntualmente a Dio. In caso contrario, egli entra in una logica idolatrica, in base alla quale ripone la speranza non in Dio, ma nel suo dono, che finisce per diventare un inciampo… Sì, il credente impara con fatica a rinunciare liberamente a ogni persona, a ogni relazione, a ogni cosa, perché nulla gli appartiene: Dio dona tutto, ma tutto a lui appartiene. Dirà Paolo: «Ogni cosa appartiene a voi, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23).
Vorrei concludere questa impegnativa lettura con una suggestione particolarmente significativa in vista della settimana santa ormai alle porte: l’amore tra Abramo e Isacco può evocare la con-cordia tra Dio e Gesù Cristo. Sul monte Golgota il cuore di Dio e di Gesù erano strettamente uniti, come quelli di Abramo e Isacco sul Moria: «un figlio unico e amato in questo caso, un Figlio unico e amato in quello» (Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 47,3). Il Padre non voleva la morte del Figlio, ma acconsentiva al fatto che, in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere rifiutato, perseguitato fino a essere ucciso (cf. Sap 1,16-2,24); a sua volta Gesù vive pienamente l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, anche a costo di andare incontro a una morte violenta. Questa reciproca obbedienza sfocia nel libero gesto che nasce da un éros manikós, un amore folle e inesauribile: Dio richiama Gesù dai morti, lo fa risorgere, mettendo il sigillo su tutta la sua vita.
E come Dio ha richiamato dai morti Gesù Cristo, «il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm 8,29), così richiamerà ciascuno di noi dalla morte alla vita eterna nel suo Regno.
Enzo Bianchi
Priore di Bose