Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Lectio divina su 1Ts 1,1-10

17/10/2008 01:00

ENZO BIANCHI

Lectio Divina,

Lectio divina su 1Ts 1,1-10

Sono lieto di essere in mezzo a voi per questa lectio divina sul brano di apertura della Prima lettera di Paolo ai tessalonicesi; ringrazio in particolare...

Roma, 17 ottobre 2008


S. Maria in Traspontina


Solo un’ecclesia audiens può anche essere ecclesia docens perché la Parola che la chiesa annuncia e testimonia non è sua, ma di Dio: questo è avvenuto

«LA PAROLA DEL SIGNORE RIECHEGGIA…» (1Ts 1,1-10)

 

Introduzione

 

Sono lieto di essere in mezzo a voi per questa lectio divina sul brano di apertura della Prima lettera di Paolo ai tessalonicesi; ringrazio in particolare don Bruno Secondin per l’invito rivoltomi. Ritengo inoltre assai significativo che questo nostro sostare in meditazione sulla Parola di Dio avvenga proprio mentre è in corso il Sinodo dei vescovi su «La Parola di Dio nella vita e nella missione della chiesa», occasione propizia per riandare all’essenziale della nostra vita di fede.
In questo senso, prima di ascoltare e pregare insieme 1Ts 1,1-10 vorrei fare, a partire da una lettura trasversale delle Sante Scritture, alcune considerazioni generali sulla potenza, sull’efficacia della Parola. Grazie ad esse preparerò il terreno per una comprensione profonda dell’affermazione paolina: «La Parola del Signore riecheggia, risuona» (1Ts 1,8).

 

1. L’efficacia della Parola

 

Dio parla: questa è l’affermazione fondamentale che attraversa tutta la Scrittura, è la «cosa grande» senza la quale noi non potremmo avere nessuna relazione personale con lui. Con assoluta decisione, con libera e gratuita iniziativa Dio ha alzato il velo su di sé, si è rivelato agli uomini per entrare in relazione con loro, per offrire loro i suoi doni meravigliosi, secondo la bella immagine di Ireneo di Lione (cf. Contro le eresie iv,14,1). Nel Deuteronomio viene posta sulla bocca di Mosè questa profonda riflessione, da annoverare tra quelle che fondano lo statuto di Israele e della chiesa come popolo di Dio chiamato all’ascolto:

 

Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia ascoltato la voce di Dio parlare dal fuoco, come tu l’hai ascoltata, rimanendo vivo? (Dt 4,32-33).

 

Dio parla, sceglie di uscire da sé e di auto-comunicarsi, e la sua Parola manifesta la sua potenza negli ambiti della creazione e della storia. La Parola di Dio è creatrice, come attestano unanimemente l’Antico e il Nuovo Testamento: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,3), si legge all’inizio della Bibbia; «Tutto è stato fatto per mezzo della Parola» (Gv 1,3), conferma il prologo del quarto vangelo. Inoltre attraverso la sua Parola Dio chiama gli uomini per stringere alleanza con loro: ecco la storia di salvezza, che si apre con Abramo (cf. Gen 12,1), un uomo scelto a favore dell’umanità intera, affinché nella sua discendenza siano benedette tutte le famiglie della terra (cf. Gen 12,3).
Ma per comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando è fondamentale sottolineare che il termine ebraico davar, normalmente reso con «parola», significa anche «cosa», «evento», «azione» (cf. 1Re 11,41; 14,19.29; ecc.). Il davar è l’intervento di Dio nel divenire del mondo, intervento sempre efficace e performativo; è la sua volontà di vita che costantemente sostiene l’intero creato e ogni singola creatura. Tutto ciò è ben sintetizzato da un famoso brano di Isaia: 

 

Oracolo del Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare … così sarà la Parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,8.10-11).

 

«La Parola di Dio è viva ed efficace» (Eb 4,12), sempre con la sua dýnamis produce qualche effetto, non lascia ciò che incontra nella situazione di partenza; il problema, se mai, consiste nella durezza del cuore umano, così lento ad ascoltare Dio, così recalcitrante a mettere in pratica la sua Parola…
E la storia del manifestarsi di Dio all’umanità trova il suo vertice in Gesù Cristo, Parola definitiva di Dio, Parola che comunica pienamente la volontà d’amore di Dio nei confronti di noi uomini. Lo esprime bene il passo con cui si apre la Lettera agli Ebrei, che riassume in modo contemplativo tutta la rivelazione biblica:

Dio, che aveva parlato nei tempi antichi molte volte e in molti modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi nel Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Il Figlio, che è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, sostiene tutto con la potenza della sua Parola (Eb 1,1-3).

 

Affermare che Gesù è la Parola di Dio significa dire che egli ne è il volto, la narrazione, la rivelazione definitiva e ultima. Sì, tutto ciò che noi possiamo sapere e dire su Dio si trova in Gesù Cristo: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato (exeghésato)» (Gv 1,18). Ormai la Parola, il Lógos che era presso Dio ed era Dio (cf. Gv 1,1), si è fatto carne (cf. Gv 1,14) nascendo da donna (cf. Gal 4,4) grazie allo Spirito santo; e tutta la vita di Gesù Cristo, dalla sua preesistenza nei cieli al suo «passare tra di noi facendo il bene» (cf. At 10,38) fino alla sua morte, resurrezione, ascensione e parusia è la Parola di Dio, è ciò che Dio vuole comunicare all’umanità.
È su questo sfondo che è possibile leggere con occhi nuovi alcune affermazioni presenti nel Nuovo Testamento, segnatamente negli scritti di Luca e di Paolo, stretti collaboratori nell’opera di evangelizzazione. Negli Atti degli apostoli per tre volte, in altrettanti snodi cruciali della narrazione, si ripete con lievi variazioni una medesima frase che, per quanto concisa, ha la stessa importanza dei tre più noti «sommari» ecclesiali (cf. At 2,42-45; 4,32-35; 5,12-16):

 

La Parola di Dio cresceva (vb. auxáno: lo stesso usato per la crescita di Gesù in Lc 2,40 e del granellino di senape, simbolo del Regno, in Lc 13,19) e si moltiplicava (vb. plethýno) il numero dei discepoli a Gerusalemme (At 6,7).

 

La Parola di Dio cresceva (vb. auxáno) e si moltiplicava (vb. plethýno) (At 12,24).

 

La Parola del Signore cresceva (vb. auxáno) e si rafforzava (vb. ischýo) (At 19,20).

 

È questo il modo lucano per esprimere un elemento capitale per la chiesa di ogni tempo: la Parola è l’evento originante e il fine della vita della comunità cristiana e, di conseguenza, è l’unico fondamento della sua attività. Se la Parola cresce, se gli uomini quali «servi della Parola» (Lc 1,2) predispongono tutto per la sua diffusione e vi collaborano, allora anche la chiesa cresce, si diffonde, sperimenta l’unica efficacia autentica; in caso contrario ci può essere anche il molto operare da parte dei cristiani, ma tutto si riduce a un vano affannarsi, come quello di chi costruisce la propria casa sulla sabbia (cf. Mt 7,26).
Nella Seconda lettera ai tessalonicesi Paolo, riecheggiando il canto del salmista (cf. Sal 147,15), utilizza un’immagine diversa ma ugualmente pregnante: «Fratelli, pregate perché la Parola del Signore corra (vb. trécho) e sia glorificata come presso di voi» (2Ts 3,1). In tal modo l’Apostolo affida ai cristiani della sua comunità la preghiera essenziale: quella affinché la Parola non conosca ostacoli nella sua diffusione su tutta la terra e sia glorificata, cioè riceva da tutti il riconoscimento della sua gloria, del suo peso efficace nella storia. Quale sia questo peso lo si evince da un’altra asserzione di Paolo nella Prima lettera ai tessalonicesi che, mettendo in parallelo Parola di Dio e chiesa, costituisce un prologo ideale al brano che sarà oggetto della nostra lectio: «Noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto la Parola di Dio che avete ascoltato da noi, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma quale essa è veramente, Parola di Dio che opera (energheîtai) in voi che credete» (1Ts 2,13).

 

2. 1Ts 1,1-10: la Parola efficace e la comunità cristiana

 

Ascoltiamo dunque l’incipit della Prima lettera di Paolo ai tessalonicesi; ve lo leggo in una mia traduzione, più fedele all’originale greco:

 

1 Paolo, Silvano e Timoteo
alla chiesa dei tessalonicesi 
(che è) in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo.
2 Noi ringraziamo sempre Dio per tutti voi,
facendo continuamente memoria (di voi) nelle nostre preghiere,
3 ricordandoci 
dell’opera della vostra fede 
della fatica della vostra carità 
e della perseveranza della speranza nel Signore nostro Gesù Cristo
davanti al nostro Dio e Padre.
4 Noi conosciamo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione
5 perché il nostro Vangelo non è giunto presso di voi soltanto in parola
ma anche in potenza, in Spirito santo e in pienezza,
come voi sapete ciò che noi siamo diventati presso di voi e per voi.
6 E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore,
avendo accolto la Parola
con la gioia dello Spirito santo
pur in una grande tribolazione,
7 in modo da diventare un esempio 
per tutti i credenti in Macedonia e in Acaia.
8 Infatti la Parola del Signore riecheggia per mezzo vostro 
non solo in Macedonia e Acaia,
ma in ogni luogo la vostra fede in Dio si è diffusa
così che non abbiamo bisogno di parlarne.
9 Infatti essi stessi raccontano di noi 
quale accoglienza noi abbiamo avuto presso di voi
e come vi siete convertiti verso Dio dagli idoli
per servire il Dio vivente e vero
10 e per attendere dai cieli suo Figlio 
che egli ha fatto risorgere dai morti,
Gesù, colui che ci libera dall’ira che viene.

 

Prima di passare alla lettura puntuale del testo vi faccio notare un dato relativo alla sua struttura, che può aiutare la nostra meditazione. Dopo l’indirizzo e il saluto (v. 1), questo primo capitolo può essere suddiviso in tre parti: tra il rendimento di grazie dell’Apostolo a Dio per il comportamento della comunità di Tessalonica (vv. 2-3) e la sua lettura di alcune conseguenze che discendono dalla conversione (vv. 9-10), in posizione centrale si trova la Parola del Signore, il Vangelo (vv. 4-8). Quale modo più chiaro per esprimere il fatto che è la Parola la vera protagonista della vita personale e comunitaria dei cristiani di Tessalonica?

 

a) Indirizzo e saluto

 

• Paolo, Silvano e Timoteo

 

alla chiesa dei tessalonicesi 
(che è) in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo.

 

Paolo, associando a sé Silvano e Timoteo, suoi compagni nella missione, indirizza questa lettera – che è il primo scritto del Nuovo Testamento – alla chiesa di Tessalonica. Dagli Atti degli apostoli e dalle notizie che lo stesso Paolo fornisce in questa lettera, sappiamo che essa è scritta durante il suo lungo soggiorno a Corinto, dunque tra l’autunno del 49 e la primavera del 50. Mentre si trova a Corinto, Paolo è raggiunto da Timoteo il quale gli porta buone notizie sulla comunità di Tessalonica (cf. 1Ts 3,5-6), che avevano fondato insieme (cf. At 17,1-10). Allora egli decide di inviare a questa giovane comunità un breve scritto, «per completare ciò che manca alla loro fede» (cf. 1Ts 3,10).
Paolo si rivolge «alla chiesa dei tessalonicesi (che è) in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo». Egli si serve del termine ekklesía, che va compreso in profondità: è una parola composta dalla preposizione ek, «da», e dal verbo kaléo, «chiamare», e indica l’insieme delle persone convocate dalla Parola di Dio. Come già avveniva per il qahal ‘Adonaj, l’assemblea d’Israele radunata da Dio nel deserto, così avviene per la chiesa: solo la Parola è la fonte della sua esistenza e del convenire in unum dei suoi membri. Di conseguenza, solo dimorando nella Parola i cristiani di Tessalonica possono mantenersi fedeli alla loro vocazione: essere «in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo».
Sulla comunità l’Apostolo invoca «grazia e pace», cioè il dono dell’amore gratuito e sempre preveniente di Dio (cháris) e quello dello shalom, della pienezza di vita, della pace e della felicità: è un binomio che riassume in sé l’intera esperienza di salvezza e apre la comunicazione di fede rivolta all’assemblea in ascolto.

 

b) Il rendimento di grazie

 

2 Noi ringraziamo sempre Dio per tutti voi,
facendo continuamente memoria (di voi) nelle nostre preghiere,
3 ricordandoci 
dell’opera della vostra fede 
della fatica della vostra carità 
e della perseveranza della speranza nel Signore nostro Gesù Cristo
davanti al nostro Dio e Padre.

 

Dopo il versetto introduttivo, Paolo innalza a Dio un convinto rendimento di grazie (che tornerà anche in 1Ts 2,13 e 3,9), elemento tipico delle sue lettere, ad eccezione di quella ai galati: non si tratta di una formalità, bensì di una scelta consapevole e motivata.
Egli ringrazia Dio (vb. eucharistéo) sempre, facendo continuamente memoria dei cristiani di Tessalonica nelle sue preghiere. Rendere presenti i fratelli e le sorelle quando ci si pone nella fede di fronte al Padre è di importanza capitale in vista della comunione. Va detto con chiarezza: senza questa preghiera per l’altro nel momento della sua lontananza fisica da noi non si può vivere nessuna autentica relazione di comunione e d’amore. Quando infatti ricordiamo gli altri nella preghiera siamo per così dire costretti, se lo facciamo nella verità, a vederli in un’altra luce, a vederli sempre come un dono di Dio. Sì, il ricordo di un fratello deve sempre suscitare nel cristiano un sentimento di gratitudine verso Dio, perché l’altro, ogni altro, è un costante invito alla comunione, un appello all’amore, un segno di vita che rinvia al Creatore: questo ci testimonia ripetutamente Paolo nel suo primo scritto.
Scendendo più nel particolare, l’Apostolo ravvisa in tre atteggiamenti dei cristiani di Tessalonica altrettante cause della sua eucharistía:
l’opera della fede (tò érgon tês písteos)
la fatica della carità (ho kópos tês agápes)
la perseveranza della speranza (he hypomoné tês elpídos).
Abbiamo qui per la prima volta nel Nuovo Testamento la triade «fede, speranza e carità» (cf. 1Cor 13,13, ecc.), quelle che diventeranno un riferimento comune e costante nella catechesi cristiana, fino ad essere definite le tre virtù teologali. Non potendo sostare approfonditamente su di esse, faccio solo qualche rapida annotazione muovendo dai termini a cui si accompagnano.
Innanzitutto Paolo ricorda «l’opera della fede»: così facendo egli insegna che la fede cristiana è tale nella misura in cui è operosa, concreta, non intellettuale, ideale… Sì, la fede è autentica nella misura in cui è un’adesione salda e fiduciosa a Dio e a Gesù Cristo. È questa stessa relazione ad essere efficace, operosa, a divenire un annuncio agli occhi del mondo: un annuncio non fatto a parole, ma che traspare da una vita conseguente a ciò che si crede, una vita modellata su quella di Gesù. In questo senso, è possibile accostare al nostro passo la risposta di Gesù a chi gli chiedeva che cosa occorresse fare per compiere le opere di Dio: «Questa è l'opera (érgon) di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29).
Paolo parla poi della «fatica della carità», espressione che riassume in modo meraviglioso l’esercizio quotidiano della vita cristiana: l’agápe è certamente un dono di Dio (cf. 1Cor 12,31), è il télos della fede, ma nello stesso tempo è fatica dell’uomo, è una grande fatica. L’amore cristiano non è mai soltanto un desiderio, un sentimento: è un amore manifestato con atti concreti senza pretendere la reciprocità, un amore che va fino al dono della vita e fino al nemico, un amore che è sempre accompagnato dall’esercizio della libertà propria e altrui, e quindi dalla fatica. L’amore, lungi dall’essere un’attività facile e immediata, è un lavoro che esige una grande ascesi è «un arduo lavoro, un lavoro a giornata», per dirla con Rainer M. Rilke: non dovremmo mai dimenticarlo…
Infine Paolo fa memoria della «perseveranza della speranza nel Signore nostro Gesù Cristo», espressione dal duplice significato: la perseveranza è infatti generata dalla speranza, ma a sua volta è la perseveranza che rafforza la speranza. La speranza è l’arte di pazientare di fronte all’incompiutezza che vediamo in noi e intorno a noi; è la capacità di concentrare le proprie forze per vivere l’unica attesa veramente necessaria: quella della venuta del Signore Gesù (cf. anche 1Ts 1,10), che porterà a compimento ciò che noi sulla terra possiamo solo cominciare. In ultima analisi è sempre speranza nella resurrezione, nella vita eterna: «solo la speranza nella vita eterna», osserva Agostino, «ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio vi,9,5).
Ecco l’essenziale della vita cristiana, presente nel comportamento della giovane comunità di Tessalonica: è questo che riempie di gioia Paolo. L’Apostolo però è anche capace di fare un passo ulteriore: sa discernere nella fede, nell’amore e nella speranza dei suoi figli spirituali il frutto di un ascolto fedele della Parola di Dio da lui annunciata.

 

c) «La Parola del Signore riecheggia…»

 

4 Noi conosciamo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione
5 perché il nostro Vangelo non è giunto presso di voi soltanto in parola
ma anche in potenza, in Spirito santo e in pienezza, 
come voi sapete ciò che noi siamo diventati presso di voi e per voi.
6 E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore,
avendo accolto la Parola
con la gioia dello Spirito santo
pur in una grande tribolazione,
7 in modo da diventare un esempio 
per tutti i credenti in Macedonia e in Acaia.
8 Infatti la Parola del Signore riecheggia per mezzo vostro 
non solo in Macedonia e Acaia,
ma in ogni luogo la vostra fede in Dio si è diffusa
così che non abbiamo bisogno di parlarne.

 

Questi versetti, retti da una doppia consapevolezza – di Paolo («Noi conosciamo»: v. 4) e della comunità («Voi sapete»: v. 5) –, ruotano intorno a un tema centrale: quello della Parola del Signore, del Vangelo annunciato nella forza dello Spirito santo e accolto dai cristiani di Tessalonica, amati e eletti da Dio. Non voglio commentare il testo in modo puntuale ma mi limiterò a parafrasarlo, riflettendo brevemente sul suo movimento di fondo.
L’annuncio del Vangelo da parte dell’Apostolo e l’ascolto obbediente da parte dei tessalonicesi costituiscono la collaborazione umana all’evento fondante: l’elezione, la chiamata di Dio. È attraverso questa mediazione umana prestata alla sua Parola che Dio può comunicare agli uomini da lui amati la sua chiamata. Ma l’annuncio – l’evangelizzazione, diremmo noi – non avviene solo per mezzo di parole, cioè non solo attraverso una catechesi verbale. No, innanzitutto è importante che alla sua radice vi siano l’azione efficace dello Spirito santo, che fin dall’in-principio sempre si accompagna alla Parola (cf. Gen 1,2-3), e la piena fiducia nella potenza del Vangelo, così enunciata altrove da Paolo: «Il Vangelo è potenza (dýnamis) di Dio, per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16)»!
Nella sua predicazione egli si fa tramite di questa potenza e i cristiani di Tessalonica, in risposta, sperimentano la plerophoría, la convinzione profonda, la completa persuasione interiore. Non è un entusiasmo carnale, una suggestione momentanea, ma quella certezza profonda che solo chi l’ha sperimentata può conoscere. Per questo i tessalonicesi «sono diventati imitatori suoi e del Signore»: ovvero, imitatori di Paolo in quanto egli ha assunto a tal punto i «modi del Signore» (Didaché xi,8) da essere ormai un segno per risalire alla vera realtà, Cristo. Nessun protagonismo da parte dell’Apostolo; se mai la lucida consapevolezza del suo ruolo estremamente delicato, quello di essere trasparenza del Signore oppure ostacolo alla relazione con lui…
Così i tessalonicesi hanno accolto la Parola «con la gioia dello Spirito santo», gioia che si può sperimentare anche se si è immersi in una grande tribolazione. Nessuno può «naturalmente» gioire nella sofferenza, eppure lo Spirito anche in questa condizione può mettere in noi la sua gioia. Non essere capaci di questa gioia significa conoscere solo la gioia carnale e psichica; la gioia spirituale, al contrario, è interiore e può essere percepita con forza anche quando si soffre per gli assalti dell’Avversario e degli avversari. In altri termini dire, come farà Paolo, che «il Regno di Dio è gioia nello Spirito santo» (Rm 14,17), significa confessare che il Vangelo può essere vissuto in ogni situazione grazie alla forza dello Spirito, che tutto può essere vissuto evangelicamente, che niente e nessuno, se non noi stessi, potranno mai impedircelo!
È vivendo in questo modo che i cristiani di Tessalonica divengono a loro volta «un esempio» (týpos) per altri uomini, «per tutti i credenti in Macedonia e in Acaia». Ma tutto, tutto nasce dalla Parola accolta e alla Parola riconduce: «La Parola del Signore riecheggia per mezzo vostro … e in ogni luogo la vostra fede in Dio si è diffusa». Dietro a queste immagini apparentemente altisonanti sta una realtà semplice e concretissima: la fede diventa lei stessa Vangelo, buona notizia, a partire da una vita umanissima capace di testimoniarla. Non lo si dimentichi: il Vangelo lo si annuncia o lo si smentisce primariamente con la propria vita; lo stile con cui noi cristiani diamo carne al Vangelo è già il contenuto!

 

d) La conversione: servire Dio e attendere la venuta di Gesù Cristo

 

9 Infatti essi stessi raccontano di noi 
quale accoglienza noi abbiamo avuto presso di voi
e come vi siete convertiti verso Dio dagli idoli
per servire il Dio vivente e vero
10 e per attendere dai cieli suo Figlio 
che egli ha fatto risorgere dai morti,
Gesù, colui che ci libera dall’ira che viene.

 

Il frutto di questa corsa della Parola è l’azione del convertirsi da parte dei tessalonicesi, qui espressa mediante il verbo epì-strépho, che indica plasticamente l’abbandonare una realtà, quella degli idoli, per volgersi verso un’altra, quella di Dio. 
Paolo conclude questo capitolo con due espressioni molto concise ma non per questo meno significative. La conversione – dice – non è un’esperienza compiuta una volta per tutte ma è una decisione da rinnovare ogni giorno mediante un perseverante esercizio: «servire il Dio vivente e vero e attendere dai cieli suo Figlio Gesù, che egli ha fatto risorgere dai morti». Servire Dio è il modo biblico per descrivere l’atteggiamento con cui si ripudiano gli idoli e si lotta per «farsi schiavi» di Dio, nel senso di riconoscerlo come l’unico Signore della propria vita: molti sono gli idoli seducenti – lo sappiamo bene – ma uno solo deve essere il Signore della nostra vita (cf. 1Cor 8,5-6)!
E servire Dio giorno dopo giorno significa per noi cristiani nient’altro che mostrare con la nostra vita di attendere la parusia, la venuta nella gloria del Signore Gesù. È lui che con la sua vita, morte e resurrezione «ci ha ci liberato dall’ira ventura», cioè dal giudizio di condanna, mostrandoci una volta per tutte che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini (cf. 1Tm 2,3-4); è lui che nell’ultimo giorno porterà a compimento questo disegno di salvezza. Ebbene, di fronte a questa sintetica definizione dei cristiani come persone che attendono la venuta gloriosa di Cristo, dobbiamo chiederci con onestà: agli occhi dei non credenti siamo ancora quelli che attendono con ardente desiderio questa venuta? Chi darebbe ancora di noi questa definizione? Non voglio insistere, ma vi lascio come provocazione la risposta data da Ignazio Silone a chi gli chiedeva perché non divenisse cristiano: «Perché mi sembra che i cristiani attendano Cristo con lo stesso entusiasmo con cui si attende l’autobus alla fermata»…

 

Conclusione


«Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans…» («In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia…»: Dei Verbum 1): così, oltre quarant’anni fa, si apriva la costituzione conciliare sulla Rivelazione. Nel 1967 l’allora cardinale Joseph Ratzinger scriveva commentando questo testo: «È come se tutta la vita della chiesa si trovasse raccolta in questo ascolto da cui soltanto può procedere il suo atto di parola». Solo un’ecclesia audiens può anche essere ecclesia docens perché la Parola che la chiesa annuncia e testimonia non è sua, ma di Dio: questo è avvenuto per la comunità di Tessalonica, questo avviene per la chiesa di ogni tempo.

 

Sì, la Parola di Dio cresce e si moltiplica
corre
riecheggia
opera.

 

Rispondere a questa Parola entrando nel dialogo iniziato da Dio è ciò a cui è invitata l’umanità: la missione della chiesa consiste nel farsi eco di tale Parola perché ogni uomo possa ascoltarla come rivolta a sé, come Parola salvifica, e lasciarsi illuminare da essa. Lo aveva ben compreso Paolo quando concludeva il suo discorso di testamento rivolto agli anziani della chiesa di Efeso dicendo: «Vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia, che ha il potere di edificare» (At 20,32). A questa stessa Parola anch’io vi affido questa sera. 

 

Grazie.

 

Enzo Bianchi
Priore di Bose